Il 18 Dicembre 2015 è stata inaugurata la mostra “A tavola con gli antichi. Reperti e immagini tra pompei e Maddaloni” , nelle nuove sale del Museo archeologico di Calatia che dal 1993 ha sede presso il Casino Carafa di Maddaloni (www.facebook.com/museocalatia). La mostra, che sarà aperta fino al 24 gennaio 2016, consentirà di ammirare in tutta la loro raffinatezza gli splendidi ambienti degli appartamenti ducali dei noti duchi di Maddaloni, tra i più potenti nobili del territorio campano.
Il Casino, ancora poco conosciuto, era molto frequentato nel Settecento (foto 1 – 2). Era una delle tante residenze dei Carafa della Stadera, nobile famiglia che nel 1465 aveva ricevuto il feudo di Maddaloni da Ferrante I d’Aragona come premio per i servigi resi alla corona.
L’edificio presenta un nucleo fortificato cinquecentesco, trasformato tra Sei e Settecento in elegante casino di caccia con annessa azienda agricola dal sesto duca di Maddaloni Marzio Pacecco Carafa (Maddaloni 1650 – Napoli 1703), marito di Emilia Carafa dei duchi d’Andria.
Il duca poteva vantare sin dal 1671 stretti legami – forse anche familiari – con Don Gaspar de Haro y Guzmàn (1629-1687), meglio conosciuto come Marchese del Carpio, viceré del regno di Napoli dal 1682, notissimo collezionista d’arte e appassionato di maioliche, specie quelle in “terra d’Abruzzo” di cui si possono oggi apprezzare notevoli esemplari al Museo civico Filangieri di Napoli e al Museo Correale di Sorrento. A Marzio Carafa va il merito di aver fatto ristrutturare, affrescare e ricoprire di maioliche policrome, ispirate agli azulejos spagnoli e prodotte nei suoi stessi feudi, molte residenze, chiese e cappelle di famiglia situate sui vasti territori. Li troviamo indicati in una carta della Campania Felice, incisa da Francesco Cassano de Silva e stampata nel 1692 da Antonio Bulifon, libraio ed editore di fiducia di molti intellettuali napoletani e del Marchese del Carpio. Tra questi si possono segnalare due noti borghi campani: Sant’Agata de’ Goti, prestigiosa sede vescovile di antichissima data, che passò nel 1701 da Emilia Carafa al marito Marzio Pacecco, e Cerreto Sannita, distrutto dal terremoto del 1688 e ricostruito ex novo dallo stesso Marzio e dal fratello Marino, vicario generale nei presidi di Toscana.
Il Casino Carafa – che ingloba anche la Cappella di Santa Maria del Carmine, nella quale sostavano i feretri della famiglia prima di essere sepolti nella Chiesa dell’Annunziata di Maddaloni – nella sua ristrutturazione seicentesca può immaginarsi come una coesistenza di suggestioni fiorentine, berniniane e catalane. A sinistra del vestibolo di ingresso si apre la scala che conduce all’antica Galleria al piano nobile, interessata da recenti restauri condotti alla fine del secolo scorso, che hanno messo in luce una decorazione inedita ad affresco. La decorazione ha perso gran parte dell’effetto originario, ma lascia intuire la fastosità del luogo, ormai compromesso dal tempo e da successivi interventi architettonici. Un imponente colonnato, raccordato da festoni di alloro, è intermezzato da nicchie contenenti finte sculture in marmo dipinte a monocromo che raffigurano statue di divinità pagane. Le nicchie si alternano ad architravi dipinte, sormontate da angeli con medaglioni dagli emblemi a stento visibili.
Carlo I Carafa esercitò un ruolo di primissimo piano nella vita politica napoletana dell’epoca, ricevendo incarichi ed onorificenze: fu nominato reggente della Gran Corte della Vicaria, principe della Guardia, Grande di Spagna e gentiluomo di camera di entrata con tanto di chiave per accedere agli appartamenti privati del viceré. Al passaggio del regno dalla corona spagnola a quella austriaca, continuò ad esercitare un ruolo di primissimo piano nella vita politica: nel 1715 l’imperatore Carlo VI lo chiamò presso la corte di Vienna, lo nominò principe del Sacro Romano Impero e poi, nel 1716, poco prima della sua morte avvenuta a Vienna, membro del Consiglio di Stato.A partire dal 1703 i cantieri avviati da Marzio Pacecco furono completati dal figlio Carlo I Carafa che, grazie al matrimonio con Carlotta Colonna (1699), rafforzò ulteriormente la sua potenza e il suo ruolo politico. Nel 1707 fu inviato a Roma per studiare al Collegio clementino, specifico per la formazione dei nobili rampolli italiani e stranieri che volessero eccellere nei buoni costumi, nello studio della letteratura e delle arti liberali. Qui non poté restare indifferente al fermento artistico e culturale della Capitale, dominata dall’Accademia di San Luca e dalla fama del suo direttore, pittore e restauratore, Carlo Maratta.
Testimonianza del suo potere è la fervida attività di decorazione delle principali proprietà di famiglia, tutte concluse intorno al 1710, di cui restano ormai poche tracce. Ricordiamo quella del bellissimo Palazzo dei Maddaloni a Napoli, ricevuto in cambio dal marchese del Vasto e ristrutturato dall’architetto bergamasco Cosimo Fanzago, noto nel suo aspetto settecentesco da un’incisione di Paolo Petrini [L’incisione reca la dicitura: «Facciata del Palazzo del Duca di Maddaloni Carafa. Oltre della vaghezza e fuga delle stanze vi è di maraviglioso un Gabinetto tessuto di Cristalli e dipinto dal celebre pittore Giacomo del Po’ oltre l’essere detto palagio architettato»]. L’opera di Giacomo del Po (Roma, 1652 – Napoli, 1726) divenne motivo di interesse per molti contemporanei, come Bernardo De Dominici – biografo e pittore di corte dei noti duchi di Laurenzano Aurora Sanseverino Gaetani e Niccolo Gaetani dell’Aquila d’Aragona – che descrisse il soggetto dei dipinti nelle sue Vite dei pittori, scultori e architetti napoletani (1742) .
Elementi naturalistici colorati si mescolavano a finti stucchi e figure intere dipinte a monocromo, espressione di un gusto profano e rococò molto richiesto dalla nobiltà dell’epoca, interessata a trasformare le proprie residenze in corti ambite da artisti, letterati e pittori. Le pitture, ormai perdute, si ispiravano agli esempi di Mattia Preti, Francesco Solimena e dall’ultimo Luca Giordano aggiornato ai modelli artistici della Spagna, da cui era tornato nel 1702.
Giacomo del Po lavorò per Giacomo Marino, Marchese di Genzano; Leonardo Tocco, principe di Montemiletto; per i Colonna, principi di Sonnino; i Caracciolo, principi di Avellino, nel Palazzo Cellammare; per il duca Giuseppe Positano, nell’attuale Palazzo De Mattei, dove affrescò un’ Allegoria della Giustizia; per i Casamassima, dove Arcangelo Guglielmelli realizzò il portale d’ingresso. Forse lavorò anche agli affreschi per il Palazzo ducale di Piedimonte d’Alife dei già citati duchi di Laurenzano, alla cui corte – frequentata da personaggi illustri del calibro di Gian Battista Vico o Matteo Egizio – operarono i pittori più noti della prima metà del Settecento napoletano: Francesco Solimena, Paolo de Matteis, Gaetano Cusati e Giacomo Nani, quest’ultimo divenuto decoratore di molte ceramiche della reale fabbrica borbonica di Capodimonte e autore della maggior parte dei dipinti che costituivano la Quadreria del Real Casino di Carditello.
Era, dunque, tra i migliori artisti presenti all’epoca sulla piazza, rappresentante di quel gusto romano dominante all’Accademia di San Luca. Giunto a Napoli da Roma nel 1682, probabilmente al seguito del viceré del Carpio, per eseguire i disegni e le incisioni dell’Arco di Traiano a Benevento, si era presto distinto come illustratore di libri, decoratore di chiese e residenze nobiliari proprio mentre Luca Giordano stava affrescando il Palazzo Medici Riccardi a Firenze e i toscani Bibbiena proponevano nuove soluzioni per l’architettura, le strutture effimere, le scenografie teatrali e gli apparati decorativi. Lavorò intensamente sia a Napoli che in provincia, allontanandosi solo per brevi viaggi a Roma e a Firenze. A lui è riconosciuta la diffusione della moda dei “chiaroscuri” che simulano stucchi e sculture a integrazione di dipinti e monumenti, privilegiati dai nobili per le proprie dimore e le proprie cappelle.
Numerose le opere realizzate per Carlo I Carafa e sua moglie: due miniature ovali per Sant’Agata dei Goti (1696); una tela con Sant’Ignazio e San Francesco Saverio per la Chiesa dell’Annunziata di Airola (1700); due tele per la Cappella dell’Addolorata della Chiesa di Santa Maria dei Sette Dolori di Napoli (1706): l’Andata al calvario e la Pietà. Tra il 1708 e il 1710 si datano gli affreschi realizzati per il Palazzo dei Maddaloni a Napoli in via Toledo. A questo stesso periodo appartengono gli affreschi inediti del Casino Carafa, attribuibili alla sua bottega e direzione (foto 3 – 4 – 5 – 6). In essi si riscontra una pittura classica e monumentale, comune ad altri interventi coevi napoletani dell’artista: in Santa Maria dei Sette Dolori, in Santa Teresa degli Scalzi (foto 7 – 8), nella Cappella Milano in San Domenico Maggiore e nel Convento di San Gregorio Armeno.
Ad una possibile collaborazione dell’architetto napoletano Arcangelo Guglielmelli (1648–1723), quadraturista di Giacomo del Po, potrebbe far pensare l’iconografia dell’enorme stemma dei Carafa della Stadera, dipinto sotto la volta dell’androne del Casino e datato 1710 (foto 9) : il panneggio sorretto da angeli di stampo berniniano rientra tra le innovazioni proposte dall’architetto a partire dagli anni 90 del Seicento, assorbite durante la sua formazione romana e mirabilmente realizzate in molte chiese campane, come nella Chiesa di San Sebastiano a Guardia Sanframondi o nella Cappella di Santa Restituta al Duomo di Napoli (foto 10), il cui restauro fu commissionato da Carlo Celano, notissimo autore delle Notizie del bello, dell’antico e del curioso della città di Napoli (1692). Come spiega il professor Riccardo Lattuada, Guglielmelli, “figura artistica operante tra la progettazione e la decorazione architettonica, la pittura e la scenografia prospettica da interni, […] ebbe un ruolo significativo nei ripristini e nei rinnovi architettonici successivi al terremoto del 1688”. Abilissimo costruttore di scorci prospettici, è riconoscibile negli sfondi di famosi affreschi: La cacciata dei Mercanti dal Tempio di Luca Giordano (Chiesa dei Gerolamini, 1684); il Miracolo delle rose (Chiesa di Donnaregina Nuova, 1682) e La Caduta di Simon Mago (Sagrestia di san Paolo Maggiore, 1690) di Francesco Solimena. Si ipotizza un suo intervento anche in altri affreschi napoletani, come quelli del Refettorio di San Domenico Maggiore a Napoli, quelli della controfacciata della Chiesa dei Gerolamini e in alcune scenografie nella Chiesa di San Paolo Maggiore.
Dopo il 1710 la galleria settecentesca del Casino ducale di Maddaloni, forse un tempo ricoperta nella parte bassa da scansie lignee che si integravano con l’apparato pittorico, fu ampliata fino a inglobare un corridoio che la collegava ad una seconda galleria, anch’essa decorata e comunicante con un vasto terrazzamento colonnato, aperto sul giardino circostante. Dell’antica decorazione sopravvivono ormai poche tracce dal sapore arcadico, con uccelli su fondo azzurro che evocano antichi affreschi di epoca romana e finte lamie lignee con inserti naturalistici.
Il Casino Carafa conobbe il suo momento più florido sotto il regno di Carlo di Borbone (1734 -1759), grazie al ruolo svolto da Lelio Carafa, fratello del duca Carlo I. Partito al seguito di Filippo V di Borbone in visita a Napoli nel 1707, Lelio tornerà in Italia solo nel 1734 come fautore e sostenitore di Carlo di Borbone, figlio di Filippo V e di Elisabetta Farnese che, nel 1731, lo scelse come Capitano delle Guardie del corpo a cavallo del futuro re di Napoli. Lelio fu un uomo di grande personalità e statura politica presso la corte borbonica, insieme al nipote Domenico Marzio Carafa (1717 – 1748), ottavo duca di Maddaloni e figlio del defunto fratello Carlo I. Sotto la tutela sua e della madre – Carlotta Colonna di Stigliano – Marzio Domenico divenne un gentiluomo colto e potente. Fu membro dell’Accademia dell’Arcadia, proprio come Aurora Sanseverino Gaetani e Niccolo Gaetani dell’Aquila d’Aragona, signori della vicina Piedimonte.
Impegnato in una intensa strategia di avvicinamento alla corte papale, Domenico Marzio ospitò a Maddaloni nel 1727 il papa Benedetto XIII Orsini mentre era in viaggio per Benevento; negli stessi anni, presumibilmente, fece ampliare lo spazio abitativo del casino di caccia per rispondere alle necessità di accoglienza della nuova Corte reale. Fu allora tranciata l‘antica volta affrescata, rifatto il solaio e introdotto un soffitto a travi lignee ricoperto da incartate, a motivo stellato nelle stanze che affacciano sul cortile e con cartocci decorati con figure equestri, paesaggi e battaglie nelle retrostanze (foto 11).
Il 10 luglio 1730 il nuovo duca sposava Anna Colonna, figlia del Gran Contestabile Don Filippo Colonna, e poco dopo riceveva con tutti gli onori il 9 aprile 1734 proprio Carlo di Borbone in marcia su Napoli, che giungeva insieme allo zio Lelio dalla Spagna. La storiografia racconta che il duca Marzio baciò la mano dell’infante e lo guidò al palazzo baronale, mentre sul vecchio castello squillarono campane e tuonarono fuochi. Nella sala principale del Palazzo Ducale, gli Eletti di Napoli consegnarono al re le chiavi della Capitale e Maddaloni fu inserita tra i siti Reali o di Reali delizie. Anche perché, mentre la vicina Caserta si preparava ad essere la capitale del nuovo Regno, il giovane Carlo di Borbone dovette affidarsi per la caccia alla generosa disponibilità dei suoi nobili sudditi e delle loro proprietà. Come ringraziamento, Lelio cumulò varie nomine: cavaliere dell’ordine di San Gennaro, soprintendente dei pubblici teatri, tenente generale e infine gran protonotario del Regno; sua sorella – Francesca Carafa, principessa di Colubrano – divenne cameriera maggiore di Maria Amalia in sostituzione di Laura Castelis, marchesa di Torrecuso (1737). Similmente furono beneficiati altri membri della famiglia Carafa, collocati nei ranghi della nuova corte borbonica. In ogni caso la famiglia seppe garantire al giovane re un’accoglienza raffinata, tanto che il De Sivo racconta che il Casino di Starza Penta fosse diventato il preferito della regina Maria Amalia.
A questi anni risale certamente l’iscrizione latina che un tempo abbelliva il portale d’ingresso del Casino, attribuita all’antiquario napoletano Matteo Egizio (1674 – 1745), studioso di medicina, giurisprudenza e archeologia, membro anch’egli – come il duca Marzio Domenico – dell’Accademia dell’Arcadia e suo uditore generale. Esperto di lettere classiche, di antiquaria, di storia locale e già autore di altre iscrizioni in latino, l’Egizio frequentava da tempo il salotto dei Carafa, cosa che nel 1739 gli valse la nomina di bibliotecario regio, responsabile delle collezioni farnesiane di libri, oggetti d’arte, medaglie e iscrizioni. Tra il 1723 e il 1734 Egizio fu particolarmente interessato a Sant’Agata de’ Goti, dove effettuò alcuni scavi di monete e vasi etruschi per conto del duca di Maddaloni, tenendo fitta corrispondenza con Fileno ed Isidoro Rainone, nobili cultori di antiquaria e storia locale del centro sannita.
Un tale fermento culturale precedente alla dinastia borbonica, consente di rivedere l’apporto dato al territorio dal nuovo sovrano, che molto beneficiò della ricca eredità locale. Le stesse logiche produttive applicate al territorio dal giovane Carlo di Borbone, già intraprese agli inizi del secolo dal duca Carlo I, e la volontà di costruire un Palazzo Reale a Caserta, effettuata sin dal 1735, non sembrano aliene dai legami avuti con la famiglia Carafa, e in particolare con Lelio, la cui fedeltà non venne mai meno.
Anche dopo la morte di Domenico Marzio, poco più che quarantenne, Lelio continuò a mantenere vivi i rapporti con la corona accogliendo nobili e intellettuali, come fece ad esempio nel 1743, quando a Caserta giunse Giacomo Casanova, presentatogli dalla duchessa di Bovino, proprietaria dell’attuale Villa Porfidia a Recale. In quella occasione, Lelio offrì a Casanova – che lo rifiutò – l’incarico di precettore del piccolo Carlo Carafa di soli 10 anni, futuro Carlo II, in cambio di un grosso appartamento. Quando Carlo di Borbone partì per la Spagna nel 1759, Lelio fu promosso Capitano Generale e poi Consigliere di Stato, cariche che ricoprì fino alla morte (1761); infine, gli fu affidato il delicato compito di redigere l’atto di successione a favore dell’erede Ferdinando IV (foto 12).
Nel 1748 divenne duca di Maddaloni Carlo II Carafa (1748 – 1765), che morì appena trentenne, non prima di aver venduto per debiti alcune proprietà tra cui il palazzo napoletano di via Toledo. Gli successe Marzio Domenico (1765-1807), di soli sette anni, che verrà posto sotto la tutela del prozio Don Filippo Carafa, conte di Cerreto e grande collezionista di bambocciate di Domenico Brandi, e dell’avvocato Giuseppe Mozzacchera. Crescendo, Marzio Domenico si rivelò ingenuo e generoso: si circondò di approfittatori e cattivi consiglieri e contrasse numerosi debiti. Per questa ragione fu ripudiato e fatto interdire dalla moglie Giuseppa de Cardenas.
Alla fine del Settecento, con la diffusione della moda neoclassica, il Casino ducale di Maddaloni visse probabilmente il suo ultimo momento di gloria. Del 1775 è un inventario relativo al bosco e alla disposizione dei giardini, caratterizzati da viali curvilinei secondo la moda barocca: fontane dai temi probabilmente mitologici quasi certamente legati alla caccia; padiglioni per la sosta; un tempietto di gusto neoclassico con la volta affrescata dal mito di “Selene e Endiminione”. Nell’inventario sono descritti anche orti, frutteti e vigne. Qui, infatti, venivano prodotti e conservati diversi vini nobili (Malvasia, Falanghina, Trebiano, Moscatello, Occhio di Gallo, Mangiguerra, Lacrima Cristi) che rifornivano il Palazzo ducale di Maddaloni detto “al Mercato”, contornato da altri orti e frutteti. Qui si producevano beni che non solo costituirono una rendita per i Carafa, ma rifornirono a lungo i mercati locali e lo stesso Palazzo Reale di Caserta fino alla costruzione di siti reali produttivi come San Leucio o Carditello.
Nel 1807 è un rappresentante del ramo cadetto ad ereditare la tenuta: si chiama Francesco Saverio Carafa ed è principe di Colubrano. A lui, come testimonia l’iscrizione datata 1811, si deve la risistemazione del giardino sul lato orientale del palazzo, chiuso da un bellissimo portale neoclassico. Tra il 1824 e il 1856 la struttura viene trasformata in fabbricato urbano da destinare al fitto: si chiamerà Villa Palladino, dal nome del suo amministratore Raffaele Palladino. Non possono che essere di questi anni le carte da parato, stampate e dipinte “a mano” con raffinati motivi floreali e lumeggiate in oro, che ancora oggi ricoprono le mura delle retrostanze della Galleria. Esse ricordano molto il parato stampato in rosso e oro, visibile lungo l’appartamento settecentesco della Reggia di Caserta e risalente alla metà dell’Ottocento.
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