Pensiero, io non ho più parole.
Ma cosa sei tu in sostanza?
Qualcosa che lacrima a volte,
e a volte dà luce.
Pensiero, dove hai le radici?
Nella mia anima folle
o nel mio grembo distrutto?
Sei così ardito vorace,
consumi ogni distanza;
dimmi che io mi ritorca
come ha già fatto Orfeo
guardando la sua Euridice,
e così possa perderti
nell’antro della follia.
Questa lirica è tratta da “La terra santa”, la raccolta di poesie di Alda Merini, pubblicate nel 1984 e basate sulla drammatica esperienza del manicomio a cavallo degli anni ’70.
La poetessa dei navigli, attraverso occhi colmi di lucido incanto, e fissi sulla propria condizione, si concentra sulla natura del proprio pensiero, interrogandolo come fosse un saggio, un’idea in carne e ossa, da cui attendere una risposta e non solo supposizioni.
Un’emozione, da qualunque parte prende origini, inferno o paradiso, è sempre il primario stimolo del pensare.
Senza brividi non c’è pensiero, e non c’è azione. E barcamena l’animo tra l’assurdità della notte, dove tutto sembra possibile, e la voglia di lambire più in alto il sole.
Ogni pensiero non conosce alcun tempo, alcun limite e alcuna prigionia.
E con precisione di parole non si riuscirà mai a spiegarlo. I margini della voce non combaceranno mai perfettamente con quell’idea. D’altronde acqua e aria non si possono mai mischiare.
Pensare è avere dignità di vivere, ciò che permette di distinguersi.
Pensare è libertà. Pensare è nascita.
Pensare è la scoperta di una parte di se stessi, che può terrorizzare o che può proiettare oltre i porti delle proprie illusioni.
Il pensiero in fondo è lo specchio della follia e alla pazzia spesso conduce.