Sarà presentato giovedì 4 Giugno alle ore 18 presso l’associazione “Oltre il chiostro” di S. Maria la Nova a Napoli, il libro di Gabriele Frasca e Rosario Pinto “Carte, segni e parole” dedicato all’artista napoletano Carmine Di Ruggiero. La monografia racchiude una selezione di opere su carta che spazia dagli anni Sessanta ai primi anni del nuovo millennio, quasi tutte realizzate con tecnica mista. Come ci dice Rosario Pinto : “ Una prospettiva storiografica che ha conquistato a buon diritto consenso divide il secolo del Novecento in due grandi tronconi che, per computo d’anni, si bilanciano in perfetto equilibrio – primo e secondo cinquantennio – e che, per discrimine, assumono lo spartiacque della seconda guerra mondiale.
Tale modello di intervento di studio ha variamente ispirato anche la storiografia artistica e l’indagine prodotta da importanti lavori di riesame critico ha dovuto tener conto di ciò. Basti indicare, ad esempio, che Paolo Ricci chiude la sua trattazione delle vicende artistiche napoletane al 1943, partendo, in realtà dalla prima metà dell’Ottocento.
Egli intende chiudere, insomma, la sua trattazione giungendo ad una data significativa, il 1943 che segna, al tempo stesso, la conclusione di un ciclo storico, ma anche la fine della prima metà di secolo. Continuando a ragionare sui contributi di approfondimento storiografico e limitandoci ad un esame della sola bibliografìa di questi ultimi tempi, osserveremo che Vitaliano Corbi, ad esempio, nel suggerire una lettura storica dell’ «avanguardia» a Napoli, definisce un arco temporale che va dagli anni Cinquanta alla fine del secolo. Secondo questa stessa scansione, inoltre, s’era già orientato, un anno prima, un nostro lavoro del 2001/3 e, in seguito, similmente, avrebbero anche fatto quelli di Angelo Trimarco e di Massimo Bignardi, rispettivamente apparsi alla fine del 2002 e nel 2003/4.
C’è una generazione d’artisti, però, che, pur appartenendo a pieno titolo, per lo svolgimento della propria attività creativa, al secondo cinquantennio, non nasce in esso, ma almeno dieci- quindici anni addietro, facendo in tempo a vivere una fanciullezza ed una prima adolescenza in una realtà ambientale che non troverà più alcun riscontro nel nuovo clima post-bellico e della ricostruzione.
Non ci sembra, però, che, storiograficamente, sia stato ben approfondito questo dato per spiegare la volontà forte ed il bisogno di esprimersi che muoverà tale generazione quando – ormai diventati più o meno ventenni negli anni Cinquanta – questi giovani artisti capiscono d’un colpo che hanno tutto nelle proprie mani e che c’è
terreno da dissodare praticamente infinito. Sono figure particolari, insomma, quelle nate tra il ’30 e il ’40: sono, infatti, troppo giovani per poter aver vissuto con consapevolezza morale, civile, culturale e politica la condizione di rovesciamento di prospettive che ha dovuto attraversare la generazione precedente che si
colloca, con la propria attività, a ponte tra primo e secondo cinquantennio del Novecento e, peggio ancora, tra Fascismo e incipiente Repubblica, ma non appartengono neppure alla generazione di quanti nascono a partire
dalla fine della seconda guerra mondiale e che, quindi, non possono conoscere, che per testimonianza temporalmente sfalsata, il dato storico del cosiddetto «ventennio».
Questa generazione dei nati negli anni Trenta è interessantissima per capire il processo evolutivo dell’arte del dopoguerra e merita uno studio che tenga conto anche del fattore imprimente d’un’educazione primaria ricevuta spesso all’interno delle strutture del regime, educazione che è servita, in seguito – variamente – come rifugio
d’una nostalgia o come preciso esempio da non seguire. In arte, questi giovani, che, nella seconda metà degli anni Quaranta hanno un’età mediamente tra i quattordici
diciassette anni, sono quelli più ansiosi di conoscere e di sapere, sono quelli che pongono le domande più imbarazzanti e stringenti ai propri maestri: domande che vengono loro sollecitate dalla percezione d’un mondo al quale guardano con aperta speranza. L’esperienza del «Gruppo Sud», a parte il contributo rilevante di una testimonianza d’impegno etico e civile, si rivela per loro insufficiente e le uniche risorse esemplaristiche si propongono nell’osservazione di ciò che viene
prodotto altrove, in Europa e nel mondo. Non meno rilevante, evidentemente, sarà l’insegnamento di qualche buon maestro che sia stato capace di essere non solo creatore di opere, ma anche formatore di artisti: ad esempio, Emilio Notte.
Nel ‘vivaio’ di Notte spicca, tra le altre figure di allievi, appartenenti al segmento generazionale appena tratteggiato, un nome in particolare, Carmine Di Ruggiero, giovane intelligente e volitivo, personalità ansiosa di attingere una dimensione creativa tutt’affatto capace di farsi interprete di nuove esigenze. La radice della composizione figurativa di Notte – indipendentemente dalla disponibilità intelligentemente eclettica che gli è connaturata – è nella costruzione di un telaio, nella definizione di una struttura d’impianto. Di Ruggiero assumerà questa impostazione e la conserverà come principio di orientamento lungo tutto il corso
delle sua produzione artistica. Ma non basta: la definizione strutturale, che deriva a Di Ruggiero da Notte, non solo risponde ad un’esigenza d’ordine, ma è anche il portato d’un’analisi storica che rinvia fatalmente a Cezanne e, da lui, al cubismo. E l’esordio di Di Ruggiero, non a caso, avverrà proprio nel segno di queste
cose. Potrà essere utile, in proposito, far riferimento a quanto osserva Nino D’Antonio: «II rapporto privilegiato è con Notte: grande libertà di ricerca all’ombra di una presenza vigile e stimolante. L’idolo è Cezanne […] l’unico a costruire il quadro come una prova d’architettura. E di qui al cubismo il passo è breve».
Tutto ciò produce delle importanti conseguenze sul piano espressivo: la più vistosa è
quella del privilegiamento dell’aspetto contenutistico. Opportunamente viene
sottolineato che «le prime prove […] mostrano uno scoperto richiamo per la forma,
che si fa sempre struttura». Lo strumento formale, insomma, costituisce l’assetto
logico che consente al Nostro di definire quel luogo spirituale in cui «il fattore
emozionale […] fa scattare la molla che mette in azione la fantasia creativa [ove] poi
tutto questo passa sempre attraverso il filtro della razionalità». E qui si apre un’altra importante questione: quella della deriva formalistica della ricerca artistica del Novecento, che troppo spesso si vuole improntata al trionfo della forma, giudicandosi così che la perdita di riferimento con l’oggetto costituisca di per sé il terreno unico privilegiato per un’espressione creativa che debba necessariamente prescindere dal contenuto, affermando quasi in termini di ripresa «purovisibilista» una propria ontologia, in cui il tratto – grafico o pittorico non importa – non sia d’altro espressione che di se stesso, specchiandosi autoreferenzialmente nel proprio darsi d’immagine. E’ un’immagine questa che vivrebbe juxta propria principia e disattenderebbe la dimensione segnica di cui il ‘tratto’ creativo non s’intride attestandosi esso, piuttosto, in una astrattezza che non è astrazione, ad un livello significativo che nella dialettica segno- simbolo s’appartiene al secondo corno.
In realtà, può provarsi, piuttosto, che il deficit è nell’interpretazione più che nella realizzazione dell’oggetto, è, se si vuole, deficit valutativo e non creativo, e che il «purovisibilismo» invocato in sede critica costituisce una forzatura nella ‘cosalità’ dell’opera d’arte, sbilanciandone il baricentro verso una lettura che si proponga di
assumere che dalla perdita della referenza ‘oggettuale’ si debba necessariamente inferire anche la perdita dell’oggettività’, giustificando in tal modo il preteso azzeramento contenutistico ed il trionfo, quindi, d’una forma che non ad altro si rapporta che a se stessa. Ci sembra di poter dire, in via alternativa, che il «contenuto» è qualcosa di irrinunciabile e che travalica la stessa eventuale determinazione dell’artista a disattenderne lo spessore, iscrivendosi nell’opera come fattore consustanziale per il fatto stesso che esso riposa nella sua datità cosale e che la forma assunta dall’oggetto d’arte esprime – sia pure talvolta in via apparentemente preterintenzionale – l’irrinunciabilità del contenuto. Certo, spesso, lo ripetiamo, l’artista agisce come se fosse possibile prescindere da tutto ciò e da vita a
pratiche dell’arte in cui l’astrazione disponga il percorso ideale dell’evaporazione contenutistica. In realtà, che lo si voglia o non, l’opera d’arte un contenuto ce l’ha sempre. Ciò di cui si discuterà sarà il suo spessore, la volontà dissimulatrice, il bisogno di lasciar intendere che ci si possa effettivamente astrarre dal reale nel nome di altri riferimenti tensionali: ai valori spirituali, ad esempio, a prospettive metafisiche, ad una concezione acroamatica dell’esistere che si nutre di liturgie ed iniziazioni. Rispetto a queste cose si è reso necessario interrogarsi quando si è potuto osservare che l’astrazione si sarebbe potuta volgere in astrattezza assumendo una deriva pericolosamente mistifìcatoria. L’apparente ossimoro dell’«astratto-concreto» è una risposta che è stata convincentemente invocata, nell’immediato sviluppo della temperie post-bellica, per porre rimedio ad una situazione che poteva rischiare di
sfuggire di mano riconducendo il dibattito verso le aporie cui inducevano, per vie diverse, sia il ragionamento neo-figurativo che quello d’una concezione astrattista e neo-spiritualista. Si dovevano praticare alternative a tutto ciò, evidentemente. Ci limiteremo ad osservarne qualcuna: quella, ad esempio, che perseguono i componenti del «MAC» napoletano, che distinguono opportunamente tra «rappresentare» e «formare», dove il verbo «formare» significa spiegare che l’atto stesso creativo è un atto formativo che si estrinseca esclusivamente come possibilità di epifania dell’oggetto; e l’altra che può essere considerata quella che persegue Di Ruggiero al cui orientamento iniziale preferiremmo attribuire la definizione di «astrazionista», piuttosto che di «astrattista», proprio per significare l’impegno di conservazione del rapporto con l’oggettività della ‘cosa’ indipendentemente dall’osservanza stretta del suo dato ‘oggettuale’.
C’è molta ‘concretezza’, insomma, nell’astrazione del Di Ruggiero della prima ora, nel
suo distillato già materico d’una linea rappresentativa di cose ed oggetti che non
trovano la propria epifania espressiva nella restituzione riconoscibile della propria
immagine, ma nella capacità di porsi come sintesi essenziale di elementi primari
assemblati con una precisa volontà costruttiva che specchia la propria
ragionevolezza compositiva in un equilibrio cromatico che s’appartiene ad una sorta
di continuità evolutiva del tonalismo napoletano. Basterà sfaldare i piani e polverizzare gli assetti per ottenere quella pittura sfibrata ed asciutta di Di Ruggiero che caratterizza il suo primo esordio, negli anni Cinquanta ormai volgenti alla fine, nel mondo dell’ informale. Con pregevolissima capacità di sintesi ed in puntuale consonanza coi tempi, Oreste Ferrari, in occasione della mostra resa da Di Ruggiero alla galleria «Il Cancello» di Bologna nel febbraio del 1960, costruisce questo
profilo dell’attività del giovane artista: «… forse più esatto dire che quel che queste opere comprovano è la costante effettività di una attitudine emotiva, che appariva ancora subordinata, qualche anno fa, alla preoccupazione di attualizzare gli schemi rappresentativi post-cubistici (e pure, già allora, l’immagine investita
di una brama di possesso inferiore sapeva talvolta emergere con un’imminenza tale da colmare la cavità dei sentimenti; e il colore deferiva il suo valore ‘locale’ a più intrinseche qualità espressive); ma la cui disponibilità viene ora totalmente proposta e impegnata nella stretta, che non ammette altro scampo che non sia l’adempimento integrale, del processo creativo. E difatti, dalle sperimentazioni condotte in un’area di
cultura ancora fatalmente neo-naturalistica Di Ruggiero ha poi spiccato (in singolare consonanza, se non in relazione diretta proprio con quegli specifici indirizzi dell’ ‘informale’ che sono stati fecondamene sollecitati dalla rapida combustione del neo-naturalismo) un suo particolarissimo modo di più diretto e producente
intervento dell’emozione sul costruirsi dell’immagine». Osserviamola da vicino la produzione di Di Ruggiero dei declinanti anni Cinquanta: la Crocifissione, del 1957,
che rinuncia ad ogni residuo di simbolismo non solo nel rifiuto dell’allusività al topos iconografico consolidato, ma, soprattutto nell’abrogazione della costante storica del suo modello, che consiste nella definizione delle simmetrie all’intemo del processo figurativo della scena variamente costruita sul bilanciamento dei bracci della
croce, sulla corrispondenza, ai suoi lati, delle figure dolenti di Maria e Giovanni, sulla collocazione sul Calvario, in posizione ugualmente bilanciata rispetto a quella del Cristo, delle due croci dei ‘ladroni’. Non basta: il colore si fa sfaldato nella stesura sulla tela ma mantiene una profonda unità tonale che dice, in aggiunta, di una
profonda sintesi espressiva. Due anni dopo, nell’Urlatore, le qualità pittoriche del Nostro appaiono ulteriormente apprezzabili in quella disposizione narrativa che si esprime ormai per tratti spezzati carichi ed intensi. Sono queste, insomma, le più mature scansioni d’un processo di ricerca che già nelle tornate più mature della sua fase aurorale cubista (si pensi all’Amante del violinista del 1956) aveva indirizzato la
pittura di Di Ruggiero verso una consistenza materica e verso un rapporto sfaldato e frammentato con la figurazione ottenuto attraverso un recupero, anche qui con forti notazioni tonali, della essenzialità cezanniana e del lirismo di Braque, piuttosto che dell’irruenza picassiana.
Esiti, d’altronde, di tale disposizione creativa e di questo esemplarismo assorbito e maturamente metabolizzato, sopravvivono ancora nella pittura di Di Ruggiero durante gli anni Sessanta, in cui è evidente il guadagno di esperienza e di rastremazione creativa, ma è altrettanto vivida l’intima coerenza che presiede un
percorso nutrito di profondi convincimenti e tutt’affatto alieno da qualsiasi forma di cedimento al compromesso o di slittamento opportunistico. Ricorderemo, in proposito e solo a mo’ d’esempio, opere come All’imbocco del tunnell del 1961 o lo
straordinario Resti di una città combusta del 1962 che si presenta come un lavoro di forte spessore contenutistico e di coinvolgente intensità. A ben vedere, esaminando con la più agevole prospettiva che il tempo necessariamente consegna alle cose,
all’interno di questa produzione di Di Ruggiero tra seconda metà degli anni Cinquanta e decennio dei Sessanta, s’annida anche la radice di quella svolta “geometrica” che lo coinvolgerà durante il decennio degli anni Settanta. Dire, però, «geometrico» è riduttivo: si tratta, piuttosto, di uno scavo nella radice delle cose
e nella costruzione logica del pensiero alla ricerca delle forme (strutturali e non estetiche) che giustificano l’esistente. Non è, insomma, il «minimalismo» che s’afferma, ma la essenzializzazione del dato, la distillazione estrema
di quell’ «attitudine emotiva» che tempestivamente aveva messo in luce Oreste Ferrari. Ne da una sintesi efficace il ragionamento critico di Filiberto Menna che valorizza la condizione liminale della dimensione «geometrica» nell’artista, mettendone in luce lo stato di sospensione tra acquisizione della asetticità fredda
della cultura industriale e il tratto irrinunciato d’un afflato umano: «Nell’opera di Di Ruggiero – sostiene Menna – il colore non è più il veicolo di un’emozione […] l’opera si da allo spettatore come un oggetto, ambiguamente diviso tra la precisione assoluta del prodotto industriale e la persistenza di un margine di manualità propria di
una cosa fatta a mano. Da questo punto di vista, direi che la caratteristica che contraddistingue l’opera di Di Ruggiero nell’ambito delle ricerche comuni a molti altri artisti si debba rintracciare proprio in questa persistente manualità del processo formativo dell’artista, una manualità che lo stesso pittore rende esplicita mediante
l’impiego di un mezzo come il legno che rimanda di per sé a una tradizione formativa artigianale». L’esperienza «geometrica» di Di Ruggiero non è un innamoramento passeggero: essa è articolata compiutamente nel contesto di una ricerca cui anche altre personalità forniscono un contributo importante, come avviene con la formazione del gruppo «Geometria e Ricerca» che si sviluppa alla metà degli anni
Settanta, preceduto non solo da ricerche specifiche, come quelle del gruppo «Nuovo Costruttivismo», che opera nei primi anni del decennio, in pratica, parallelamente alle ricerche condotte individualmente da Di Ruggiero stesso, ma soprattutto collegandosi idealmente all’esperienza «concretista», alla quale, d’altronde, avevano dato vita personalità come Guido Tatafiore e Renato Barisani che, non a caso, ritroviamo anche in «Geometria e Ricerca»”. La dinamica dei rapporti geometrico-informali può apparire a primo aspetto incongrua ed illogica: al nitore essenziale della rastremazione formale dell’impegno geometrico si oppone la libertà tutt’affatto – all’apparenza – incontrollata dell’informale, soprattutto se è intento dell’artista affidare
proprio alla interazione del suo ‘corpo’ con la ‘materia’ la produzione finale dell’opera.
Affrontare il nodo del rapporto tra ordine geometrico e gestualità, immaginando di trovarvi una sotterranea composizione del dissidio è problema creativo che si son posto anche altri artisti: in primis, il citato Barisani, ma anche altri, come Gianni De Tora e, non a caso, proprio questi artisti rientrano nella sfera delle frequentazioni umane che Di Ruggiero ha intensamente coltivato.Ad aiutarci a comprendere l’evoluzione creativa e il processo di conciliazione seguito da Di Ruggiero nella
dinamica tra l’ordine geometrico e l’entropia materica giunge soccorrente la lettura critica di Aldo Trione che, intervenendo in occasione di una mostra resa dal Nostro presso la galleria napoletana de «Lo Spazio» nel gennaio del 1985, (quando s’era esaurita, quindi, la prospettiva del «geometrismo») dice: «L’opera di Di
Ruggiero si definisce fondamentalmente come ricerca delle ‘ragioni’ nascoste in ogni cosa, anche nei dettagli minimi, nelle alterazioni degli oggetti o nelle loro deformazioni […] Dopo la stagione dei Giardini del silenzio, dove il silenzio era piuttosto un sottacere, un alludere senza nominare; e dove la ricerca di un’armonia scandita in un ordine geometrico finiva col rinviare ad una sorta di metafisica soggettività, Di Ruggiero ha voluto ripercorrere certi suoi antichi sentieri interrotti […] egli ha riattraversato, nella sua recente stagione, tutta intera la sua esperienza passata […] ha riaffermato il suo amore estremo per le ‘forme’ della sua originaria creazione; ha lavorato e ‘ricostruito’ con disarmata consapevolezza. Emergono, in queste sue opere recenti, i rilievi della sua immaginazione […] rivolta a
porre ordine nel caos che ‘governa’ la materia e le cose». Non c’è, quindi, contraddizione tra il momento che definiremo «geometrico» e quello «informale» in Di Ruggiero: sono, piuttosto, aspetti complementari d’un’unica realtà,
la definizione dialettica d’una dualità apollineo-dionisiaca cui il Nostro sa conferire
rappresentazione organica e proposta di sintesi producente. Nel momento «geometrico», ad esempio, osserveremo che l’insistito rilievo del modulo triangolare conferisce una dinamizzazione quasi di stampo «espressionista-astratto» alle forme e, per converso, il linearismo grafemico di alcune scansioni compositive all’interno di opere «materiche» induce ad orientamenti di ermeneutica epistemica soprattutto quando in talune aggregazioni figurative che appaiono certamente presiedute dalla libertà del gesto, rimane da osservare che al loro intemo compare il suggerimento di indicatori evidentemente in controtendenza rispetto all’istanza eslege «informale», quali effettivamente sono la vettorialità della freccia, l’indicazione del chiasma o la metafora clessidrica del tempo. Abbiamo lasciato che, fin qui, la nostra attenzione fosse precipuamente catturata dall’imprimente dimensione strutturale dell’opera di Di Ruggiero, osservandone l’ordito e il telaio compositivo, meno l’impeto cromatico: ma
occorre risarcire questo debito. Prenderemo le mosse da alcune considerazioni di Arcangelo Izzo, che il critico detta in occasione d’una mostra di Di Ruggiero, I dialoghi col poeta, resa a Catanzaro, presso lo studio «Garage» tra gennaio e febbraio
del 1984: «In questo processo, il ricorso minimo necessario delle entità astratto-geometriche non comporta un abbassamento dei dati pittorici, ma esaltazione e tensione di elementi dinamici, la cui interazione ne autorizza, anzi, la forza e l’addensarsi del colore si epifanizza come vitalità nuova, sensualità e libertà […]
Tra ossidazione e irradiazione, tra riduzione e dilatazione, muta il rapporto del quadro con la luce, con l’ambiente, con l’osservatore. La luce si iscrive come condizione riconoscibile del momento procedurale […] proclama lo statuto dei riverberi esterni […] articolando lo standard del supporto pittorico, per fargli acquistare
una formatività pluridirezionale in rapporto dialettico con l’ambiente».
Queste notazioni di Arcangelo Izzo sono particolarmente importanti perché si legano
ad opere che Di Ruggiero realizza su carta, con la tecnica della tempera o del
collage, articolate nei cicli dell’ «Oggi» o dei «Dialoghi col poeta», che costituiscono il punto di confluenza delle sue più complesse sintesi figurative. Riflettendo su queste opere e ripercorrendone il percorso, ultimamente Di Ruggiero ha inteso riconsiderarle – a prescindere dai singoli ‘cicli’ produttivi e dalla consistenza delle dimensioni – tutte, complessivamente, Carte, proponendo, con questo termine, una reductio ad unum d’una produzione che ha molti motivi per essere osservata unitariamente, indipendentemente dalla significativa dilatazione diacronica che la distingue. La materia si allenta in delicate fluenze espressive la cui forza consiste parimenti nella determinazione del gesto e nel progetto figurativo che lo indirizza, senza che, però, sia dato al fruitore di comprendere ove risieda con esattezza il punto di sutura tra i due stadi dell’urgenza della materia e del controllo razionale. In queste opere, di piccole dimensioni, Carte che Di Ruggiero realizza con rinnovato spirito di nugae neocatulliane, s’addensa un grande spessore contenutistico e la soluzione figurativa, pur muovendo dall’empito acutamente materico, aggrumato nell’intreccio della sovrapposizione degli elementi che formano il collage o negli spessori del pigmento, ottiene risultati espressivi di straordinario lirismo. Ed anche una lettura in chiave neo-miniatoria è possibile, soprattutto se si volge in metafora tardogotica il portato dell’intervento di Di Ruggiero, che osserveremo idealmente collocato alla confluenza – mutatis mutandis – della massività giottesca in incontro col linearismo martiniano sullo sfondo (in incremento di datazione temporale) di un empito «espressionistico» degno d’un Umbro-marchigiano del tardo Trecento. Non stiamo dicendo, evidentemente. Di Ruggiero come Ugolino di Prete Ilario, ma stiamo dicendo che la politezza di linguaggio, l’essenzialità delle campiture, la definizione puntuale del linearismo sono caratteristiche che travalicano le distanze di tempo per iscriversi nelle costanti figurative d’una temperie che assume l’espressione lirica come ottenimento non d’un alleggerimento illanguidito, ma come punto di estrema
tensione emotiva e morale. L’analisi delle Carte di Di Ruggiero, che coprono un arco di tempo molto lungo, rivela una capacità creativa cui giunge in soccorso del risultato lo stesso dato imprimente della tecnica adottata, una tecnica necessariamente veloce, che deve fare i conti con la particolare natura del supporto (la carta) e dei pigmenti (le tempere) e delle altre componenti plurimateriche del collage. A differenza dell’olio su tela, nelle Carte, Di Ruggiero non può avere ripensamenti: l’intuizione che tiene dietro il progetto si realizza nell’immediatezza dell’atto o non è. E quest’idea di
freschezza, di pittura di getto domina il processo creativo del Nostro nella realizzazione di queste opere su carta. Esse hanno anche un compito specifico che non va trascurato: quello di essere la palestra quotidiana dell’artista, il contatto sciolto, in abiti domestici, la pre-istoria della dimensione ‘curiale’, il luogo dello spirito in cui l’artista si rifugia e ritrova se stesso, riflettendo ad alta voce e scoprendo nuove ragioni del fare ed anche motivi di ripensamento operoso dell’esistenza.
In questa chiave di ‘diario intimo’ le Carte di Di Ruggiero sono ancor più preziose: mettono allo scoperto tutta la sua sensibilità, tutta la forza del suo pacato sentire, tutta l’energia che si scioglie nel suo sguardo intenso ed indagatore, ma mai blasfemo o intrusivo. Attraverso queste Carte, che hanno accompagnato tutta la vita artistica di Di Ruggiero, anche se, in alcuni momenti appaiono più frequenti ed insistite nel loro succedersi ed addensarsi in corposa profluvie, ci si apre una importantissima finestra sull’artista e ci sentiamo autorizzati, così, a guardare nel suo animo. Ma ci sentiamo anche obbligati, in ossequio del suo esempio, a farlo con discrezione e con riservato pudore”. Carmine Di Ruggiero, classe 1934, è uno dei maggiori esponenti della scena artistica napoletana. Allievo di Emilio Notte, giovanissimo vinse il prestigioso premio Cesenatico. E’ stato uno dei fondatori del gruppo Geometria e Ricerca con Barisani, De Tora, Piccini, Tatafiore, Testa e Trapani. E’ stato chiamato più volte a esporre alla Biennale di Venezia e in alcuni importanti siti artistici italiani ed esteri. Memorabile è stata la mostra antologica organizzata dal museo Pignatelli nel 1982. Nel 2013 Ugo Piscopo ha curato il volume “Nel vento solare della luce” presentato nella sede del “Premio Napoli” E’ stato direttore delle accademie delle belle arti di Catanzaro e Napoli, e sue opere sono ospitate nelle collezioni di importanti musei italiani ed esteri.