Domenica 29 marzo alle ore 17 presso Palazzo Della Racchetta si svolgerà il finissage del nuovo progetto artistico curato da Virgilio Patarini e organizzato dalla Camel Home Gallery di Ferrara in collaborazione con Zamenhof Art di Milano e Palazzo della Racchetta, con la presenza di numerosi artisti e presentazione critica della mostra, oltre che del correlato volume “Trans-Figurazione” pubblicato per l’occasione da Zamenhof Art Edizioni. “TRAnS-FIGURAZIONE” è una mostra d’arte contemporanea che raduna nello storico Palazzo della Racchetta, in centro a Ferrara, 100 opere di 11 artisti emergenti, con lo scopo dichiarato di ridefinire un concetto contemporaneo e post-moderno di “figurazione” , tra pittura, fotografia, scultura e installazioni. Come ci dice Virgilio Patarini nel testo introduttivo del catalogo.: “Una figurazione attraversata, trafitta, tradita, ritrovata e sfigurata, tramandata e al tempo stesso rimandata, abbozzata, non finita, inquieta, in dissolvenza, in ambigua ambivalenza tra memoria e oblìo, in crisi di identità o forse, meglio: in piena presa di coscienza della propria identità multipla, schizofrenica, mutevole e post-moderna, incline al declino e proprio per questo forte della sua fragilità, consapevole della propria consistenza effimera, fantasmatica, famelica e cannibale e al tempo stesso anoressica…
Una figurazione oltre il principio di non contraddizione, uguale a se stessa e sempre diversa, coerentemente incoerente, nostalgica di un passato mai davvero vissuto e forse nemmeno compiutamente immaginato, che risorge dalle sue ceneri e di cenere è fatta, e di fumo che il vento disperde e di fiamme sull’acqua…Una figurazione sincopata, ondivaga… bussola impazzita che si rifiuta di decidere una volta per tutte da che parte sta il nord, amante fedele solo nell’ora del tradimento, presenza assente, assenza sempre presente, segno di contraddizione, disegno senza contorni, sconfinato confine, modo smodato, snodo riannodato, grumo di sangue e sospiri, carezza che ferisce, problema sempre aperto, insoluto…Una figurazione in cui il come e il che cosa si scambiano di ruoli, in un gioco di specchi in frantumi in cui è difficile dire se sia l’immagine che è a pezzi o il mezzo che la riflette. O l’anima che in quell’immagine si riflette e riflette su quell’immagine. Forma che si traveste da materia e viceversa, nudo travestimento.
Una figurazione in cui niente è ciò che sembra e tutto sembra nulla…Questa a me pare che debba essere la “figurazione” oggi. E questo è quello che ho cercato nell’allestire questa mostra, come curatore, e prima ancora come artista, in quest’ultimo anno in cui sono tornato in qualche modo alla “figurazione”; o forse sarebbe meglio dire che è stata lei a venirmi a cercare: lei, questa ambigua e polimorfa idea di figurazione post-moderna. Una figurazione in cerca d’autore. Ma si tratta di una storia che parte da lontano e su cui è necessario riflettere se si vuole portare con leggerezza il peso di questa controversa eredità. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento la figurazione in ambito pittorico subisce crescenti pressioni e profonde trasformazioni, sul piano fenomenico come su quello noumenico: non solo entra in crisi l’impianto visivo, ma anche, per così dire, l’approccio “ideologico”.Sul fronte spiccatamente fenomenico Impressionismo, Divisionismo e Puntinismo affrontano in maniera differente ma ugualmente radicale l’aspetto della “visione” della realtà: l’immagine dipinta si sfalda, si scompone in punti-luce-colore e questo, mentre nelle intenzioni degli artisti risponde alla necessità di una maggiore e più fedele adesione alla rappresentazione della realtà, di fatto finisce per sortire un effetto rivoluzionario che trasforma l’idea stessa di pittura. La scomposizione della luce e dello spettro cromatico attuata dagli impressionisti in maniera empirica e poi codificata dai puntinisti rispondeva ad una volontà di sfruttare al meglio le caratteristiche peculiari del mezzo pittorico e le conoscenze dei fenomeni ottici della visione, con lo scopo di ottenere innanzitutto una figurazione più efficace, più “realistica”, ovvero più simile al modo in cui l’occhio umano percepisce la realtà, o per meglio dire, rovesciando la prospettiva: in maniera più simile al modo in cui la realtà “impressiona” la retina di chi guarda. Tuttavia l’azione di scomporre l’immagine in punti-luce-colore produsse una sorta di “effetto collaterale” forse non propriamente previsto né pienamente voluto. La sacralità secolare della “bella pittura”, tramandata a tutti gli effetti, di secolo in secolo, di generazione in generazione con scarti tutto sommato minimi dalla metà del Quattrocento alla metà dell’Ottocento, veniva ora completamente scardinata e messa radicalmente in crisi. All’improvviso la maniera tradizionale di dipingere, la cosiddetta “pittura tonale”, dimostrava di esser un mezzo antiquato e sorpassato, un autentico ferro-vecchio. E questo, si badi bene, innanzitutto come strumento per rappresentare fedelmente la realtà. A questo punto, una volta dissacrata e smitizzata la “bella pittura”, si aprivano nuovi inattesi orizzonti e l’immagine, la figurazione cominciò a subire scomposizioni e interventi sempre più violenti, con un progressivo interessamento anche del piano “noumenico”.
Non solo cambiava il modo di “vedere” la realtà, ma anche il modo di pensarla, immaginarla, reinventarla. Le Avanguardie acquisiscono piena coscienza del carattere rivoluzionario del loro contributo alla Storia dell’Arte, non sono sul piano formale e stilistico, ma anche e soprattutto sul fronte propriamente estetico e filosofico. Nel giro di due anni, a ridosso dell’inizio della Prima Guerra Mondiale, Cubismo, Futurismo ed Espressionismo danno una serie di spallate devastanti al già vacillante edificio dell’Arte Tradizionale, e buttano il cuore oltre l’ostacolo. Col Cubismo lo scarto è violento sia sul piano fenomenico che del pensiero: si cerca di rappresentare la figura contemporaneamente da più punti di vista. Pur restando centrale la volontà di rappresentare la realtà, salta uno dei cardini della pittura tradizionale e della tradizionale visione prospettica: il punto di vista unico. L’oggetto o il soggetto raffigurato viene visto e ritratto da più punti di vista contemporaneamente, come se il pittore girasse intorno a quello che dipinge, invitando lo spettatore a fare altrettanto. Una figurazione a 360°. Quello che il Cubismo fa con lo “spazio” il Futurismo lo fa col “tempo”: il soggetto ritratto viene colto e rappresentato in movimento. Salta un altro caposaldo, un altro cardine della Figurazione Tradizionale. La Pittura non fotografa più l’istante, ma il divenire. Una Figurazione in divenire. Con l’Espressionismo si passa più decisamente dal piano fenomenico a quello del noumeno: l’artista non raffigura più la realtà così come la vede (sia pure girandole intorno o cogliendola nel suo divenire nel tempo), ma come la immagina: sulla tela egli persegue la rappresentazione della sua personale idea di realtà. A questo punto il “come” ovviamente diviene più importante del “che cosa” si dipinge, il significante predomina rispetto al significato. E tutto in una dimensione decisamente più soggettiva. In fin dei conti Futuristi e Cubisti si muovevano ancora in una sfera di almeno ideale “oggettività”. L’Espressionismo invece rinuncia dichiaratamente ad ogni velleitaria pretesa di oggettività e al tempo stesso (forse necessariamente) si svincola da rapporti troppo stretti con una rappresentazione icastica della realtà. Col rischio tuttavia di sconfinare nell’arbitrarietà di una figurazione che essendo troppo soggettiva rischia di finire per essere più difficilmente condivisibile da un pubblico più ampio. E forse il “Ritorno all’ordine” della fine degli Anni Venti e soprattutto degli Anni Trenta è stata (anche) una risposta a questi eccessi, alla sbornia di soggettivismo e di arbitrarietà di una pittura radicale e rivoluzionaria come quella di Cubismo, Futurismo ed Espressionismo. Oltre che un naturale “riflusso”, di quelli di cui parla il Wolfflin.
Per non parlare poi della strumentalizzazione politica ed ideologica fatta dai regimi totalitari di quegli anni (Nazismo, Fascismo e Stalinismo) nei riguardi di questo ritorno alla “bella pittura”. Solo una pittura tonale di facile lettura, infatti, poteva veicolare i messaggi propagandistici ed auto-celebrativi necessari al consolidamento nell’opinione pubblica di questi regimi totalitari. Tuttavia nella Storia nulla torna uguale, e infatti la pittura tonale degli anni Trenta presenta alcune interessanti novità, rispetto a quella dei secoli precedenti. Innanzitutto una certa sintesi e stilizzazione formale che di certo risente del retaggio inalienabile di Cezanne, Matisse, Gauguin e poi una sorta di aura metafisica, di sospensione temporale ed immersione in uno spazio-tempo in qualche modo mitico e assoluto, sub specie aeternitatis, che da un lato è una reazione drastica e netta alla “pittura in divenire” dei Futuristi e dall’altro è un recupero delle atmosfere simboliste di fine Ottocento: da Gustave Moreau (1826-1898), Pierre Puvis de Chavannes (1824-1898), Arnold Böcklin (1827-1901) a Odilon Redon (1840-1916) eDante Gabriel Rossetti (1828-1882). Poi arriva la cesura degli anni Quaranta, col black-out della Seconda Guerra Mondiale e il successivo rifiuto radicale di ogni forma di “figurazione”, persino quella dell’Astrazione Geometrica: sono gli anni dell’Informale, dell’Espressionismo Astratto, dell’Action Painting: nomi e sfaccettature diverse della stessa rivoluzione estetica che dilaga dall’America all’Europa fino in Giappone. Di colpo ogni rappresentazione di figure e realtà visiva appare un patetico anacronismo, al punto che pochi anni dopo, quando la Pop Art reintroduce la “figura” lo fa in maniera “surrettizia”, con una sorta di “stratagemma” sottile e culturalmente raffinato: la rappresentazione della realtà e della figura riappare con la Pop Art in maniera indiretta, come “citazione”, messa, per così dire, “tra virgolette”. Si fanno opere d’arte visiva “citando” icone popolari come l’immagine di Marilyn Monroe, o i fumetti o la pubblicità. E lo stesso, mutatis mutandis, faranno pochi anni dopo anche gli esponenti dell’Arte Concettuale. Poi però, generazione dopo generazione, smarrito il rigore delle origini, gli epigoni della Pop Art perdono per strada le virgolette, e con esse una certa presa di distanza critica ed ideologica dalla rappresentazione della figura e più in generale della realtà sic et simpliciter, in maniera diretta, senza filtri, e questa finisce per tornare alla ribalta prepotentemente, sebbene spesso in maniera goffa quando non addirittura anacronistica. Il problema, per così dire, sono le seconde e le terze linee, così come le seconde e le terze generazioni, e un certo decadimento, un certo “imbastardimento” forse non del tutto inevitabile. È un problema di tutto il Novecento, in fondo. E anche della fine dell’Ottocento.
Alle cosiddette “Avanguardie” non seguono truppe d’invasione, ma altre Avanguardie, oppure una guerra anarchica e senza quartiere, tanto per restare nella metafora bellica. Non fu così nei secoli scorsi: al Caravaggio, tanto per fare un esempio a caso, seguirono frotte di epigoni, manieristi sul fronte puramente pittorico e di certo inferiori a Michelangelo Merisi come talento, ma non come “idea dell’arte” e come coerenza e radicamento di principi estetici e filosofici condivisi. E dunque non solo la “maniera” del Caravaggio prese piede e divenne “vulgata”, ma anche il suo approccio estetico e intellettuale. Ora a me non pare che questo sia accaduto sul fronte della Pop Art. Cinquant’anni e tre generazioni di epigoni di Andy Worhol and Company forse hanno piuttosto disperso e vanificato, più che arricchito o anche solo tramandato, il patrimonio di idee ricevuto in eredità. Certo potremmo chiederci se il problema risieda nella pochezza degli eredi o nella vacuità e nell’approssimazione di tale retaggio. Ma sarebbe una riflessione che esula da quello che qui interessa. Per conto mio mi sono sempre tenuto piuttosto alla larga da ogni forma di “neo-pop”, ma più per istinto che per ponderata riflessione; e quando mi sono occupato di qualcosa di vagamente pop (vedi ad esempio l’opera di Stramacchia e di pochi altri autori) si trattava quasi sempre di un “pop” decisamente contaminato e/o sublimato. Questa mostra infondo si potrebbe leggere anche così: come il tentativo di recuperare una figurazione contemporanea e post-moderna, forte, efficace e radicata, che prescinda dalle derive pop degli ultimi decenni. Sono undici ma avrebbero potuto essere molti di più. Nell’allestimento sono stati raggruppati per affinità elettive e per analogie tecniche e formali. Appartengono a tre diverse generazioni, eppure parlano un linguaggio (artistico) molto simile: attraverso differenti media (la fotografia, la pittura, la scultura) praticano una figurazione ugualmente inquieta ed allusiva, contemporanea e al tempo stesso radicata nella tradizione delle Avanguardie, riconoscibile e al tempo stesso sfuggente. Allusiva ed elusiva. Coerente e contraddittoria: coerente nell’essere contraddittoria. Nelle fotografie di Amos Crivellari, Valentina Carrera e Simona Ragazzi le figure e i luoghi appaiono come trasfigurati: il cosiddetto “mosso artistico” è usato da questi tre artisti in maniera analoga in una direzione che potremmo definire mistica, di trascendenza. Il movimento della macchina fotografica è volto a catturare l’anima, l’essenza metafisica dei luoghi come delle persone. Dall’inquietudine, dal movimento, dal gioco di riverberi di immagine, di ombre, di sovrapposizioni nascono visioni che sprigionano un’energia endogena, un elan vital che si manifesta come un’epifania misteriosa. Attraverso il divenire si racconta l’essere: un’apparente aporia solo per chi ancora creda nel principio di non contraddizione.
Dietro i volti e le cose intuiamo presenze immanenti che non sappiamo bene se stiano affiorando o scomparendo alla luce della nostra coscienza. E la realtà di colpo diviene, si rivela effimera, fantasmatica, fantasmagorica: e più è sfuggente e più ci ammalia, più ci irretisce con le sue reti fatte di sogni e di ombre. Nebbia che prende corpo. Corpi che si sfaldano come nebbia. E su questa ambivalenza tra memoria e oblìo si gioca infondo tutta questa mostra. È questa una delle cifre dell’incanto. La memoria dell’oblio. Un oblio che è memoria. Un’ambiguità che si fa polisemìa. Un’inquietudine che è ricchezza e muove alla curiosità, risveglia sopite inaspettate verità. E mentre nella pittura pastosa e di matrice informale di Stazio e Palasgo appare più evidente che si tratti di materia allo stato brado che viene aggredita, plasmata e in qualche modo, anche se solo in parte, domata, imbrigliata in abbozzi di paesaggi o di scorci urbani e dunque indirizzata verso un’incarnazione che è affiorare di forme alla luce della memoria, nelle tecniche miste mie e di Boscolo non è così chiaro se si tratti di un processo di rivelazione o al contrario di cancellazione, di rimozione. Qui l’uso di vecchie foto è sottoposto ad azioni ambigue e fuorvianti e sovrapposto a una matrice informale o gestuale. E non si capisce se il gesto dell’artista sia rivolto ad un recupero archeologico o ad una rimozione iconoclasta. In Andrea Pirani i due livelli sono sovrapposti: su di una base informe ed informale affiora un disegno guizzante e primitivo, a tratti infantile, fiabesco, che consente alle immagini di affiorare come filastrocche portate dal vento, di cui afferriamo solo un mozzicone di frase, due parole troncate, ma che tuttavia ci bastano a immaginarci in tutta una storia. Un discorso a parte invece meritano la pittura di Ezio Mazzella e i collages di Edoardo Stramacchia. Mazzella recupera a pieno la tradizione di Morlotti e Birolli, di quello che un tempo fu definito “Ultimo Naturalismo”, cogliendo della natura l’essenza, il ritmo, il respiro, le intime connessioni, senza indulgere in inutili dettagli descrittivi, eppure al tempo stesso dando vita a strutture complesse, articolate che della realtà ci restituiscono le connessioni profonde e una rappresentazione fedele alla sostanza. Stramacchia nelle opere qui selezionate compie una raffinata operazione intellettuale di spiazzante citazione artistica: con le sue consuete tessere di fumetti manipolati ricostruisce una colta versione pop di celebri opere del Moretto o di Pablo Picasso. Le figure dei fumetti, cancellate, ritagliate e decontestualizzate sono utilizzate per dare forma a mosaici post-moderni da cui affiorano le silhouettes di altre figure della storia dell’arte, in una sorta di cortocircuito tra forma e contenuto, tra significante e significato.
Dennis Fazio infine, con le sue eleganti sculture lignee, affronta il tema della figura femminile con una progressiva e decisa stilizzazione formale che ne allunga le forme sinuose, portandeno al limite estremo il processo di astrazione e sublimazione eppure senza nulla perdere in sensualità: ancora una volta un apparente paradosso..In esposizione le opere di Simone Boscolo, Valentina Carrera, Amos Crivellari, Dennis Fazio, Ezio Mazzella, Diego Palasgo, Virgilio Patarini, Andrea Pirani, Simona Ragazzi, Ivo Stazio, Edoardo Stramacchia.
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Giovanni Cardone