Richiamare l’attenzione sulla questione dell’emigrazione “forzata” è un atto che si deve a se stessi. Il problema semmai è quello di riuscire a cogliere in termini critici le contraddizioni oggettive di una realtà che storicamente si impone, col fine ultimo di non incappare nella morsa dell’impossibilità. Propongo qui una breve parentesi che ha la pretesa della scientificità, solo per sottolineare quanto è sotto gli occhi di ognuno di noi.
“Andare o restare”, costituisce l’interrogativo tipico della nuova generazione umana, che esprime chiaramente un disagio tutto nevrotico frutto di una scissione interna tra la volontà di “restare per cambiare” e quella di “andare” con la speranza di una prospettiva futura.
In senso stretto è l’interrogativo che si pone quotidianamente un giovane abitante di un qualsiasi piccolo centro dell’Italia Meridionale. In senso più ampio è l’interrogativo che si pone un giovane abitante di un qualsiasi piccolo centro del meridione del mondo. La mania dell’altrove, dell’opportunità, del successo, o della semplice ricerca di una vita dignitosamente sostenibile a livello economico, è una pandemia che si dà da-per-sempre, e da-per-sempre ci si ostina a perseguire una orba dimenticanza sulla possibilità che questa tendenza, così ben radicata da parere un fattore biologico, sia finemente e socialmente costruita, storicamente determinata, più che essere frutto “di una natura nomade dell’uomo”. Quel che contrariamente mi pare naturalmente umano è forse proprio tutto il “resto”, questo resto include le capacità di adattamento, trasformazione dell’ambiente circostante, mutamento della realtà data.
Ecco perché parlare di creatività nel Mezzogiorno italiano, avvalendosi di una ricerca che promuove l’utilizzo del metodo scientifico mi pare possa avere un senso profondo in questo momento storico (o comunque dal 1861 in poi)
Quelli che tenterò di descrivere sono i risultati di uno studio empirico di comunità condotto nella provincia di Caserta (Presenzano), in cui è stato coinvolto 1/6 della popolazione locale (in totale 221 soggetti); premessa dello studio era la volontà di indagare la presenza di un eventuale potenziale creativo in un campione di soggetti risultati altamente conformisti da una ricerca socio-psicologica precedente. L’oggetto dell’indagine è dunque la creatività, ricercata nei termini della psicologia individuale e sociale, accostata alla studio della percezione di un’opera d’arte. Una creatività indagata molecolarmente, in uno di quei contesti geopolitici che paiono impossibili da mutare.
Di seguito alcuni stralci dei risultati dell’indagine estremamente sintetizzati.
“Dall’analisi dei dati è risultata esservi una differenziazione tra generi. Quel che ne risulta significativa è la chiara propensione femminile a prediligere tipologie di attività che sottolineano una viva esigenza di plasmazione della materia e trasformazione tangibile del reale. L’indagine, in questo senso, ha solamente permesso di sottolineare e rimarcare una potenzialità creativa , presente in queste donne, chiaramente indirizzata ad un mutamento visibile ed effettivo del dato reale.(…)
(…) Oltre alla differenza di genere si è posta l’attenzione su un altro dato significativo concernente l’istruzione. Quello che mette in risalto questo dato (istruzione-età) è un dato di fatto facilmente attestabile: i più anziani hanno un contatto con la realtà molto più florido e vivo dei soggetti giovani , che più facilmente tendono all’astrazione, fino a perdere il contatto reale con l’interiorizzazione delle proprie esperienze, più per una serie di trasformazioni legate al mondo tecnologico e sociale che li confonde e smarrisce (social network et simili), che non per qualità conferitegli da istruzione e gioventù. Nonostante la tentazione di trarre una conclusione teorica a carattere generale ,tale per cui l’intelligenza è migliorata dall’istruzione, non lo si può affermare per quel che concerne la creatività: ad un maggior livello di istruzione non possiamo dimostrare che aumenti un eventuale potenziale creativo, sembra essere altresì presente una modalità differente di espressione di questo; a tal proposito la riflessione slitta su tutt’altro piano, potremmo affermare in effetti che i soggetti con un livello di istruzione minore posseggono una libertà di interazione con la materia, una intelligenza artigianale, che i più giovani ed istruiti non hanno.
(…) Risulta che disoccupati e pensionati sono i soggetti con il più alto indice di attrazione alla complessità (considerata una delle caratteristiche proprie degli individui creativi). Questo dato mette in luce le grandi potenzialità di due intere generazioni, una più giovane attanagliata nella morsa della disoccupazione, ed una reclusa ai circoli per anziani, entrambe considerate letteralmente “inutili” in vista di una egemonica concezione di produttività interamente associata alla sfera economica. I dati citati in questo paragrafo mettono in evidenza come proprio nelle categorie e nelle fasce sociali considerate più “deboli” (donne, anziani, disoccupati), sia presente un potenziale creativo enorme inespresso , le cui potenzialità di trasformazione ed esplicazione in ambito pubblico risultano neutralizzate da una comune ed ideologica, nonché erronea, concezione socialmente costruita.”
Il fatto che si sia voluto accostare uno studio sulla personalità ad uno studio di percezione dell’oggetto stimolo d’arte, è dovuto alla estrema convinzione che molti limiti concernenti la percezione, in particolare dell’arte, possano essere abbattuti, proprio perché precostituiti dalla struttura sociale stessa. La percezione di un qualcosa di estraneo e minaccioso in questi individui, è scomparsa nel momento del coinvolgimento diretto. Il discorso in questo senso sarebbe volto ad una nuova tipologia di antropologia solidalistica, che preveda un’azione pedagogica e sociale dell’esercizio artistico ed intellettuale, piuttosto che finanziario ed elitario.
Il nesso con le problematiche esposte all’inizio di questo articolo sono molteplici. Nonostante possa essere effettuata una generalizzazione più ampia, lo studio mostra che potenzialità creative presenti in questo Sud sono enormi e da ricercarsi in primis nelle fasce sociali che in larga misura vivono questi luoghi con più disagio.
In pratica, il disoccupato, la donna, l’anziano sono risorse inesauribili, che per una questione tutta legata al “buon costume” del lavoro, del maschilismo, della esaltazione della gioventù, neanche si rendono conto di essere una vera e propria miniera di possibilità. In vista di questo le percentuali di disoccupazione e la media d’età dei piccoli centri del Sud non possono e non devono più essere letti come dati catastrofici legati alla questione meridionale, ma come incredibili potenzialità e risorse culturali e umane vivissime che urgono un riconoscimento privilegiato ed un coinvolgimento immediato nel contesto comunitario.
In questa prospettiva la sola opzione che vede coinvolte le istituzioni non è sufficiente. La necessità principale , l’emergenza più viva consiste nella presa di coscienza individuale di questi individui delle proprie capacità creative, per riscoprire e credere possibile un cambiamento radicale e necessario nella vita sociale di tutte le piccole comunità del Mezzogiorno, con la finalità di riuscire a “creare” un contesto reale e migliore dove si è, senza dover inseguire la chimera del sogno americano per finire sfruttati, sradicati e ben pagati.