Può sembrare soltanto l’ennesima raccolta per celebrare un grande artista, ma quando si parla di Fabrizio De Andrè non si può essere e non si è mai banali. “Fabrizio De André. In studio” è uscita da pochi giorni ed è già diventata un “cult”. La raccolta presenta infatti l’intera discografia in studio del cantautore e poeta genovese. Tredici album, da “Volume 1” del 1967 ad “Anime salve” del 1996, con tutti i capolavori che il pubblico non ha mai smesso di amare, da “Bocca di rosa” a “Un giudice”, dalla “Canzone del maggio” a “Giugno ’73”, da “Creuza de mä” alla “Domenica delle salme”. Inoltre essa contiene 200 pagine con magnifiche foto, interviste d’epoca, testimonianze dei collaboratori (giganti come Gian Piero Reverberi, Franz Di Cioccio, Nicola Piovani, Francesco De Gregori, Massimo Bubola, Mauro Pagani, Ivano Fossati). Infine include un cd con i singoli che mai uscirono nei dischi originali, come “Il fannullone”, “Geordie” e “Il pescatore”. Il tutto a 99 euro. La storia della musica italiana è stata cambiata radicalmente dall’avvento di De Andrè. In Italia Fabrizio ha avuto lo stesso effetto che ebbe Bob Dylan negli Stati Uniti e poi nel mondo intero. In un solo colpo spazzò via schemi, canoni e banalità tipiche della musica italiana tradizionale e “leggera”. Ispirato proprio da Dylan e Leonard Cohen e soprattutto dalla scuola degli “chansonnier” francesi, Georges Brassens su tutti, con le sue “ballate” ha squarciato il velo (spesso di ipocrisie) della musica italiana e aperto nuovi orizzonti che ancora oggi influenzano molti artisti contemporanei. De Andrè è un punto fermo, imprescindibile e inossidabile per chiunque voglia avvicinarsi al mondo della “canzone” che nell’artista ligure muta e si trasforma quasi sempre in pura poesia. Un processo di “sublimazione” costante e reversibile che fa scoprire all’orizzonte dell’ascoltatore mondi sempre nuovi. Le ballate medievali o la tradizione provenzale, l’“Antologia di Spoon River” o i canti dei pastori sardi, Cecco Angiolieri o i Vangeli apocrifi, i “Fiori del male” di Baudelaire o il Fellini dei “Vitelloni”, sono alcuni dei “mondi” che vengono rievocati da De Andrè con la sua proverbiale e dissacrante ironia. Frammenti che restano impressi e rivivono nelle coscienze ad ogni ascolto. Innovatore d’eccezione, senza dimenticare mai le radici. Il “dialetto” infatti diviene successivamente fondamentale nella produzione artistica di Faber. “Crueza de ma” è la pietra miliare di un genere, la “world music italiana”(ovvero la riscoperta dei ritmi popolari in chiave “moderna” attraverso una “mescolanza” di suoni e strumenti ), che dopo sarebbe esploso definitivamente. Nato dalla collaborazione con Mauro Pagani e scritto integralmente in genovese, “l’idioma neolatino piu’ ricco di fonemi arabi” (per via della storia di gloriosa Repubblica Marinara di Genova e dei suoi abili mercanti per secoli a stretto contatto col mondo arabo) è un la descrizione perfetta e ideale di un “piccolo mondo antico” ovvero la sua amata Genova (dove nasce il 18 febbraio del 1940) che aveva “la faccia di tutti gli esclusi conosciuti nella citta’ vecchia, le ‘graziose’ di via del Campo, i fiori che sbocciano dal letame”. De Andrè pur essendo nato da una famiglia borghese, ha sempre prediletto “i quartieri dove il sole del buon Dio/ non da’ i suoi raggi/ le calate dei vecchi moli/ l’aria spessa carica di sale/ gonfia di odori”, descritti nella sua splendida “Citta’ vecchia”. Sin dalle sue prime canzoni/ballate, che Nicola Piovani inserisce in pianta stabile nella tradizione popolare italiana, De Andrè si lascia contaminare da altre culture in una evoluzione costante. Il successo popolare arriva grazie all’interpretazione nel ’68 da parte di Mina della sua “Canzone di Marinella”, la storia struggente della morte di una prostituta (storia tratta da un vero episodio di cronaca dell’epoca). La quotidianità, soprattutto nella prima fase della sua produzione artistica, influenzerà molto le sue prime composizioni, sulla scia della passione per la letteratura francese e per autori quali Proust, Maupassant, Villon, Flaubert e Balzac. E’ una fase prolifica notevole della cosiddetta “scuola genovese” che annovera autori quali Paoli, Bindi, Lauzi e soprattutto Luigi Tenco del quale De Andrè era grande amico e al quale dedicherà la struggente “Preghiera in Gennaio” dopo il suo drammatico suicidio. Prima della “Canzone di Marinella” c’era stato il primo 45 giri attribuito al cantautore genovese, “Nuvole Barocche” (1958) e in seguito De Andrè, suo malgrado, si “politicizza” per la prima volta. Con “La guerra di Piero” infatti si inserisce nel filone delle canzoni anti-militariste, facendo il verso agli inni pacifisti di Bob Dylan e Joan Baez, ma al tempo stesso viene fuori il “vero” Fabrizio. Altri successi di quel periodo furono “La citta’ vecchia”, “Ballata dell’Amore cieco”, “Canzone dell’amore perduto”, “Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers” (scritta con Paolo Villaggio, fraterni amici divisi solo dalla passione calcistica: De Andrè genoano, Villaggio invece sampdoriano), “Via del campo” e l’eterna “Bocca di rosa”. Successivamente arriveranno altri album di grande successo: “Fabrizio De Andre’ – Volume I”, “Tutti morimmo a stento”, la “Buona Novella” ispirato ai “Vangeli Apocrifi”, “Non al denaro, non all’amore ne’ al cielo” ispirato dall’ “Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Masters. La punta estrema della “politicizzazione” di De Andrè arriva con l’album “Storia di un impiegato”. Sono gli anni di “piombo” e al clima di contestazione e paura e soprattutto alle numerose critiche che giungono da destra e da sinistra De Andrè replica: “Il mio identikit politico e’ quello di un libertario, tollerante. Se poi anarchico l’hanno fatto diventare un termine orrendo. In realtà vuol dire solo che uno pensa di essere abbastanza civile da riuscire a governarsi per conto proprio, attribuendo agli altri, con fiducia, le stesse capacità”. Seguiranno gli album “Canzoni” (1974), nel quale ritorna a ispirarsi a Dylan, Brassens (con la splendida “Le Passanti”) e Cohen (con la sublime “Suzanne”), “Volume VIII” (1975) che nasce dall’incontro con Francesco De Gregori e che contiene una vera pietra miliare come “Amico Fragile”, e “Rimini” (1978), composto insieme a Massimo Bubola dove si rivive l’atmosfera dei “Vitelloni” di Fellini (“Avventura a Durango” che gli valse i vivissimi complimenti di Dylan, “Andrea” e “Sally” sono alcuni dei brani principali), al quale seguì un grandioso tour con la PFM che rilanciò prepotentemente De Andrè al grande pubblico grazie anche a nuovi e moderni arrangiamenti dei suoi brani. Poi arriverà l’album “L’indiano” che nasce dopo la traumatica esperienza del suo rapimento, insieme alla nuova compagna Dori Ghezzi (in precedenza Fabrizio aveva sposato Enrica Rignon detta “Puny”), in Sardegna. Dopo 4 mesi di rapimento alla fine De Andrè sorprenderà ancora una volta mostrando umanità nei confronti dei suoi sequestratori che egli paragona agli indiani “Cherokee”. Nell’album sono presenti ballate come la bellissima “Fiume Sand Creek” che ricorda il massacro perpetrato dai soldati del colonnello Chiwington, il quale venne poi eletto al Senato degli Stati Uniti. Di “Crueza de ma” abbiamo già parlato e ad esso seguiranno “Le nuvole” col quale inizia la collaborazione con l’altro simbolo della canzone ligure e italiana Ivano Fossati. Nell’album spiccano i brani “Domenica delle Salme” e “Don Raffaé” (eseguita anche in una splendida interpretazione ad un concerto del primo maggio insieme a Roberto Murolo). Nel ’96 esce “Anime Salve” ancora in collaborazione con Fossati e nel quale De Andrè sfoggia quell’ “elogio della solitudine” (delle varie solitudini umane) che caratterizza l’intero album. “L’isolamento – diceva De Andre‘ – ti consente di non stare nel mucchio. E’ la sola condizione idonea a non essere contaminati da passioni di parte, uno stato di tranquillita’ dell’animo che permette di abbandonarsi all’assoluto”. “Princesa”, “Khorakhanè”, “Dolcenera”, “Le acciughe fanno il pallone”, “Disamistade”, “Smisurata Preghiera” sono alcuni “gioielli” presenti nell’album e donati all’umanità da Faber. “Ho un’estrazione borghese e mi sono adagiato un po’ su questo materasso di piume. Avrei potuto dare molto di più se fossi nato alla Foce, da un pescivendolo” amava dire Fabrizio sulla sua pigrizia che non ha intaccato però il suo duro lavoro artistico che la vita ha beffardamente interrotto l’11 gennaio del 1999. A tenere vivo il ricordo dell’uomo e dell’artista ci pensano ancora tenacemente i figli Cristiano e Luvi De Andrè (magico il duetto in teatro di “Geordie” con il padre) e la moglie Dori Ghezzi grazie alla Fondazione dedicata a Fabrizio. L’anno prossimo saranno organizzate in due serate speciali a Milano e Roma. “Un omaggio che realizzeremo con i Conservatori, in cui punteremo anche sui Notturni e sulla declinazione della musica di Fabrizio” – ha dichiarato di recente Dori Ghezzi alla stampa. Nel 2017 uscirà inoltre un film biografico su De Andrè con la sceneggiatura di Francesca Serafini e Giordano Meacci, quelli di “Non essere cattivo”, e la regia di Luca Facchini.