A volte ci penso, penso al ragazzetto sedicenne che all’inizio degli anni 90 si avvicinava alla vita con grandi sogni. Avevo paura, non so perché, forse questioni familiari, forse messaggi sbagliati della TV (che allora guardavo ancora molto) ma sta di fatto che avevo paura dello straniero (ero chiaramente razzista, ma non capivo), avevo paura del diverso. Ricordo l’urlo più frequente “l’Italia agli italiani!”.
In quel periodo aspettavamo tutti il 2000 con grande emozione, pensavamo che ci sarebbe stata una rivoluzione, una esplosione tecnologica imperiosa e incontenibile, che saremmo stati tutti meglio, ma questa è la storia di tutti, io voglio raccontarvi la mia.
Nel 2000 un ragazzo di 26 anni vince un concorso a Milano e 30 anni dopo parte come suo padre fece, nel 1972, per la metropoli simbolo di lavoro e produzione del nostro paese. Ricordo ancora il mio stupore quando sul “3” che proviene da Largo Carrobbio percorrendo via Torino si intravede, nella curva, il Duomo illuminato, uno spettacolo che toglie il fiato.
In quel periodo inizia la mia vita da uomo “libero”. Prendo casa in via Giusti, una “tripla” in un istituto religioso. E’ una tripla ma all’inizio c’è solo lui, Joseph, un ragazzo marocchino 8 anni più grande di me, di Rabat.
E’ un ragazzo solare, fa l’OSS in una casa di cura per gli anziani, si occupa delle persone più deboli delle nostra società, persone abbandonate dalle famiglie troppo impegnate a “produrre”. All’inizio il mio approccio è un po’ ruvido con lui, per me è difficile, i residui della paura dell’ “uomo nero” ci sono ancora.
Joseph è un ragazzo paziente, mi da tempo di metabolizzare, si avvicina alle mie passioni, mi chiede della mia famiglia. Poi mi parla di lui. Viene da buona famiglia ma i figli sono tanti, e non c’è la possibilità di sfamare tutti, mi parla del Marocco, di un paese abbastanza moderato, dove si vive tutti sommato bene, ma che lui ha lasciato perché in un periodo di recessione.
Mi racconta dei primi anni, del suo arrivo in Sardegna. Nel 2004 era in italia da 14 anni, era arrivato nel 1990, vivendo i primi 5 anni in clandestinità.
Nel suo racconto mi illustra come un ragazzo di 24 anni viene schiavizzato dai suoi datori di lavoro, mi racconta di come viene assoldato da kapò senza scrupoli per vendere sulle spiagge coperte, tappeti, magliette e vari monili (all’epoca lo facevano i marocchini, oggi per lo più sono nigeriani e senegalesi, tempi che cambiano), le notti in un capannone col tetto in lamiera, freddo e buio, delle serate dove non cenavi se non portavi a casa un “profitto minimo” e di tante altre sofferenze patite nei primi anni di permanenza in Italia.
La parte, però, che ricordo con più attenzione è quando mi raccontò di aver saputo che sua madre stava molto male ma i suoi “datori di lavoro” non gli permisero di tornare in Marocco per salutarla per un ultima volta, perché aveva ancora il debito del viaggio da scontare.
Il suo racconto fu commovente nel suo italiano semplice ma corretto: “ero sveglio di notte e una piccola fiammella azzurra ad un certo punto scese dal cielo e si fermò a qualche metro dai miei occhi, mi fece compagnia per qualche minuto e poi risalì verso il cielo. Non so cosa fosse ma, poi, ho saputo che in quelle ore mamma aveva lasciato questo mondo. Mi piace pensare che visto che non sono riuscito ad andare io da lei, è venuta lei da me”.
La cosa mi scosse molto, e mi commosse allo stesso tempo. Diventammo amici, uscivamo insieme, visitavamo la città, guardavamo film insieme. Mi spiegava il Corano e le preghiere, mi spiegava le parole e gli insegnamenti del Profeta e la visione musulmana di Cristo e della Madonna (Punto di riferimento anche per loro). Imparai a mangiare i datteri, il Ramadan e le usanze tipiche della sua terra.
Da parte mia cercai di dargli qualche consiglio, su come interagire nella nostra società e di stare attento ai “furbi” che per “predisposizione genetica” popolano la nostra terra da Nord a Sud. La nostra fu una grande amicizia e quando nel 2006 lasciai Milano l’abbraccio con lui, probabilmente, fu il più lungo e sofferto, perché sapevo che difficilmente ci saremmo rivisti.
Di lui conservo una frase che non dimenticherò mai e che ha cambiato, per sempre, la mia visione sulle persone in cerca di speranza che vengono a cercare una vita dignitosa nel nostro paese.
Negli anni di convivenza mi ero accorto che lui, Joseph, andava a dormire sempre vestito, per poi cambiarsi la mattina e andare al lavoro. Dopo anni, prima di andar via, gli chiesi il perché. La risposta non la potrò mai dimenticare:
Quando sono arrivato in Italia avevo questa immagine delle irruzioni della polizia che arrestava i clandestini, e si vedevano in TV questi ragazzi, connazionali, essere trasportati in pigiama o mezzi nudi nelle camionette che poi li avrebbero rimpatriati. Io non volevo farmi riprendere e fotografare così, se fossero venuti mi avrebbero trovato in ordine. Ora sono un immigrato regolare ma continuo a farlo perché voglio sempre ricordarmi da dove vengo e quello che ho passato.
Ciao Joseph, amico mio, fratello marocchino. Grazie a te sono un uomo RICCO.