Alberto Burri nasce a Città di Castello (Perugia) il 12 marzo 1915. Si laurea in medicina nel 1940. Quale ufficiale medico è fatto prigioniero degli alleati in Tunisia nel 1943 e viene inviato nel campo di Hereford, Texas. Qui comincia a dipingere. Tornato in Italia nel 1946, si stabilisce a Roma e si dedica alla pittura. Nel ’47 e ’48 tiene le prime personali a Roma (Galleria La Margherita). Nel 1951 partecipa alla fondazione del gruppo “Origine” con Ballocco, Capogrossi, Colla, e l’anno successivo espone, alla Galleria dell’Obelisco, Neri e Muffe. Dal 1950 assumono rilievo i Sacchi, fino a predominare nelle mostre personali che, dopo Roma, si tengono oramai anche in varie città americane ed europee: Chicago, New York, Colorado Springs, Oakland, Seattle, San Paolo, Parigi, Milano, Bologna, Torino, Pittsburgh, Buffalo, San Francisco. Al volgere del sesto decennio, nei successivi appuntamenti con il pubblico (Venezia, Roma, Londra, New York, Bruxelles, Krefeld, Vienna, Kassel) appaiono i Legni, le Combustioni, i Ferri. Agli inizi degli anni sessanta si segnalano in successione ravvicinata, a Parigi, Roma, L’Aquila, Livorno, e quindi a Houston, Minneapolis, Buffalo, Pasadena, le prime ricapitolazioni antologiche che, con il nuovo contributo delle Plastiche, diverranno vere e proprie retrospettive storiche a Darmstadt, Rotterdam, Torino e Parigi (1967-1972). Gli anni ’70 registrano una progressiva rarefazione dei mezzi tecnici e formali verso soluzioni monumentali, dai Cretti (terre e vinavil) ai Cellotex (compressi per uso industriale), mentre si susseguono le retrospettive storiche: Assisi, Roma, Lisbona, Madrid Los Angeles, San Antonio, Milwaukee, New York, Napoli. In anni recenti Burri realizza complessi organismi ciclici, a struttura polifonica. Il primo è stato Il Viaggio, presentato a Città di Castello nel 1979 e passato l’anno successivo a Monaco di Baviera, poi Orti a Firenze nello stesso ’80, Sestante a Venezia (1983) e Annottarsi (‘85 e ’86), che inizia da Roma la presentazione in varie città europee. A Città di Castello dal 1981 è esposta in permanenza a Palazzo Albizzini una scelta selezione di opere, omaggio di Burri alla sua città. Nell’84, per inaugurare l’attività di Brera nel settore del contemporaneo, Milano ospita una esaustiva mostra di Burri. La fortuna critica del pittore si intreccia strettamente da un lato con le reazioni-contrasto relative alla divulgazione della sua opera, sempre in rapporto ad una diversa evoluzione del gusto secondo la cultura di fondo dei vari paesi europei ed americani, dall’altro con le approssimazioni ed i tentativi della critica di rapportarne il significato e le motivazioni alle pseudo-categorie divulgate di uso internazionale: art brut, informale, concettuale, ecc. In questa logica, i quotidiani e i periodici d’informazione finiscono per registrare, dagli anni cinquanta ad oggi, un’esemplare mutazione del gusto di massa, dalla ripulsa scandalizzata alla accettazione curiosa, all’accettazione motivata, all’esaltazione acritica. In concreto la linea portante della lettura critica passa sostanzialmente attraverso i testi sollecitati dalle mostre e attraverso i saggi ospitati da riviste specializzate. È significativo che le prime assonanze venissero da voci di poeti (L. De Libero, L. Sinisgalli, Alberto Burri, Roma, 1947; E. Villa, Burri, Roma, 1963; J.J. Sweeney, Burri, Roma, 1955). Sweeney, dopo aver accolto l’opera di Burri in una selezione al Guggenheim Museum (Younger European Painters, New York, 2 dic. 1953 – 21 feb. 1954), ne illustrava il lavoro in un saggio monografico (Burri, Roma, 1955), lo presentava alla VII Quadriennale di Roma nello stesso anno e vi ritornava con appassionata e lucida partecipazione in occasione della mostra itinerante del ’57 – ’58 Paintings by Alberto Burri, Carnegie Institute, Pittsburgh, 1957) e della Biennale Veneziana del ’58. Saranno sempre esponenti della critica internazionale a seguire il processo espositivo e divulgativo dell’opera di Burri (J.P. Byrnes, The Collages of Alberto Burri, Colorado Springs, 1955, Seattle, 1956; M. Tapié, Burri et César, Parigi, 1956; A. Pieyre de Mandiargues, Alberto Burri, Milano, 1957; E. Vietta, Alberto Burri, Basilea, 1959; P. Wember, Alberto Burri, Krefeld e Vienna, 1959; H. Read, Alberto Burri, Londra, 1960), mentre la critica italiana sembra accorgersi di questo outsider nel momento stesso in cui se ne verifica l’accettazione accademica nell’ambito del museo e nelle “rappresentative” dell’arte attuale. Pagine appassionate gli dedica Arcangeli (Opere di Alberto Burri, Bologna, Torino, 1957); Argan ne presenta la prima retrospettiva (Burri, Bruxelles, 1959) e la personale alla XXX Biennale di Venezia (1960). I primi approfondimenti storici sono di Calvesi, (Alberto Burri, in “Quadrum”, n. 7, Bruxelles, 1959) e di Crispolti (Mostra antologica, opere dal 1948 al 1955, Roma, 1961; Alternative Attuali, Omaggio a Burri, L’Aquila, 1962). Gli anni sessanta vedono convergere sull’artista attenzioni e consensi improntati a svariate giustificazioni critiche e metodologiche, nel tentativo di inquadrare in sistemi generali le motivazioni contenutistiche e formali. Si segnalano in tal senso gli apporti di Brandi, culminati, dopo la presentazione di una mostra nel ’62, in un’ampia e documentatissima monografia (Burri, Roma, 1963, contributi al catalogo generale di V. Rubiu) con motivi ripresi in successive occasioni (Assisi, 1975, Napoli, 1978). Dopo quella sintesi ufficiale e nuove stimolanti prospettive di indagine proposte da Calvesi (Alberto Burri, Milano, 1971), saranno ancora le esposizioni, tematiche o retrospettive, a stimolare il lavoro esegetico degli ultimi due decenni, dal contributo, ancora una volta, di Sweeney (Houston, 1963) alla retrospettiva storica di Brera ed alle personali in varie città europee: H.G. Sperlich, B. Krimmel, Alberto Burri, Darmstadt, Rotterdam 1967; A. Passoni, Alberto Burri, Torino, 1971; J. Leymarie, Alberto Burri, Roma, Parigi, 1972; M. Calvesi, Alberto Burri, Disegni, tempere e grafiche, Pesaro, 1976; B. Mantura, G. de Feo, Alberto Burri, Roma, 1976; Madrid, Lisbona, 1977; G. Nordland, Alberto Burri a retrospective view 1948 – 1977, Los Angeles, 1977, San Antonio, Milwaukee, New York, 1978; R. Causa, G.C. Argan, Alberto Burri, Napoli, 1978; N. Sarteanesi, E. Steingräber, Alberto Burri, il Viaggio, Città di Castello 1979 e Monaco di Baviera 1980; V. Bramanti, Alberto Burri, Firenze, 1980, J. Butterfield, Alberto Burri : Umbrian echoes and alchemical implications, Palm Springs, 1982; G.C. Argan, Burri-Sestante, Venezia, 1983; C. Pirovano, Burri, Milano, 1984; G. Fournet, P. Falicon, D. Abadie, Alberto Burri, Rosso e Nero, Nizza, 1984; J. Leymarie, La poétique de la matière, Parigi, 1985. Sintesi veloci dell’opera complessiva di Burri, variamente orientate sotto il profilo critico, sono state offerte in agili monografie da V. Rubiu (Alberto Burri, Torino, 1975), da F. Caroli (Burri, Milano, 1979), da S. Lux (Alberto Burri dalla pittura alla pittura, Roma, 1984) e da G. Serafini (Burri, Firenze, 1991). Nel 1973 Burri riceve dall’Accademia Nazionale dei Lincei il Premio Feltrinelli per la Grafica, con la seguente motivazione: “per la qualità e l’invenzione pur nell’apparente semplicità, di una grafica realizzata con mezzi modernissimi, che si integra perfettamente alla pittura dell’artista, di cui costituisce non già un aspetto collaterale, ma quasi una vivificazione che accoppia il rigore estremo ad una purezza espressiva incomparabile”. Il premio viene devoluto dall’artista per il restauro del ciclo di affreschi di Luca Signorelli nell’Oratorio di San Crescentino a Morra (Città di Castello). Nel 1989 la Fondazione Palazzo Albizzini acquisisce gli Ex Seccatoi del Tabacco, complesso di capannoni industriali destinati fino agli anni Sessanta all’essiccazione del tabacco. Queste architetture irripetibili, di insolita grandezza, completamente dipinte di nero all’esterno per desiderio di Burri, sono state così trasformate in una gigantesca scultura, contenitore ideale per i grandi cicli pittorici come Il Viaggio, Annottarsi, Rosso e Nero, Non Ama il Nero. Queste ed altre numerose opere, tra cui le tre sculture Grande Ferro Sestante, Grande Ferro K, Ferro U, collocate all’ingresso degli Ex Seccatoi del Tabacco, sono state donate dall’artista a Città di Castello per completare il primo nucleo collocato a Palazzo Albizzini. Nel 1990 la Fondazione Palazzo Albizzini ha pubblicato un amplissimo volume con la documentazione relativa a circa 2000 opere dell’artista (Burri contributi al Catalogo Sistematico). Sempre nel 1990, Burri espone in una galleria privata di New York (Salvatore Ala Gallery) il ciclo Palm Springs, 11 grandi cellotex del 1982. Segue la mostra Perielio: Burri-Saffo all’Istituto Italiano di Cultura in Atene. Nello stesso anno, la galleria Sapone di Nizza espone alla F.I.A.C. di Parigi una serie di Cellotex e la scultura Grande Ferro R viene installata al Palazzo delle Arti e dello Sport “Mauro De André” di Ravenna. Nel 1991 una grande retrospettiva, organizzata dalla Pinacoteca Nazionale di Bologna, è allestita a Palazzo Pepoli Campogrande di Bologna, ove vengono esposte per la prima volta le opere di piccolissimo formato. La mostra prosegue poi per Locarno, ospitata nella Pinacoteca Comunale Casa Rusca. Contemporaneamente il Castello di Rivoli presenta 20 Cellotex inediti. Sempre nel 1991 Burri espone alla Mixografia Gallery di Los Angeles. Nel 1992 viene presentato al pubblico il ciclo Metamorfotex agli Ex Seccatoi del Tabacco di Città di Castello e con l’occasione la Fondazione Palazzo Albizzini presenta il catalogo degli Ex Seccatoi del Tabacco, con bibliografia aggiornata. Nello stesso anno nuovamente la Galleria Sapone di Nizza propone opere di Burri alla F.I.A.C. di Parigi al Grand Palais, questa volta con quadri dal 1949 al 1992 ; la Galleria delle Arti di Città di Castello ospita una mostra di grafica. La Obalne Galerije di Pirano e la Moderna Galerija di Lubiana espongono una retrospettiva di opere grafiche (dal 1962 al 1981) tra il 1992 e il 1993. Nel 1993 presso gli Ex Seccatoi del Tabacco viene aperto al pubblico un nuovo ciclo, dal titolo Il Nero e l’Oro, che consta di 10 Cellotex. Nello stesso anno viene realizzata per Faenza un’opera in ceramica di grandi dimensioni, che porta lo stesso titolo Il Nero e l’Oro, collocata al Museo Internazionale delle Ceramiche, dono dell’artista alla città. Sempre nel 1993 presso il Museo delle Genti d’Abruzzo di Pescara vengono esposte le opere grafiche del Maestro. Nel 1994 Burri partecipa alla mostra The Italian Metamorphosis 1943-1968 presso il Solomon R. Guggenheim Museum di New York. Dall’ 11 maggio al 31 giugno ’94 presso la Pinacoteca Nazionale di Atene viene presentato il ciclo Burri il Polittico di Atene, Architetture con Cactus, che verrà esposto in seguito presso l’Istituto Italiano di Cultura di Madrid (1995). Il 10 dicembre 1994 viene celebrata la donazione di Burri agli Uffizi in Firenze, che comprende un quadro Bianco Nero del 1969 e tre serie di grafiche datate 1993-94. Alberto Burri muore a Nizza il 13 febbraio 1995. Alberto Burri vive e lavora da protagonista durante la stagione eroica della pittura informale del dopoguerra, nei tempi dell’ammutolito silenzio dinanzi alla consapevolezza degli orrori di cui l’uomo è capace, nei tempi del gesto individuale esasperato e della ricerca di un proprio assoluto presente. Al contempo, egli preannuncia qualcosa di assolutamente altro. Utilizzando le possibilità di trasformazione dei materiali e considerando le materie come contemporaneamente ‘cose’ e ‘segni’, Burri riapre infatti la strada al rapporto dell’arte con una realtà che non è quella del gesto isolato ed individuale della stessa arte informale. In modo simile al neorealismo che si contrapponeva alle favole felici hollywoodiane, Alberto Burri riprende e supera la tecnica del collage utilizzando direttamente materiali della vita quotidiana carichi di umanità e di memoria (il vecchio e logoro sacco di iuta, gli stracci) oppure destinati all’uso nella vita reale e non preparati come materiali d’arte (il catrame, le plastiche, le lamiere di ferro, i fogli di legno già tagliati e il cellotex), e finisce per aprire inediti orizzonti all’arte contemporanea al di là dall’esistenzialismo della pittura informale e del concetto di opera d’arte come pura superficie piana, caposaldo del modernismo storico, entrambe istanze, queste, che pure egli ha contribuito a definire.
La fine della guerra nell’immaginario europeo corrisponde ad una liberazione estetica, ad un’idea di arte libera che si traduce in manifestazioni quali l’informale segnico, l’astrazione lirica e l’informale materico. E’ a questa nuova arte di assoluta identità fra la soggettività dell’artista e l’emblematicità che assume l’opera nella cultura in generale che allude Wilem Sandberg, direttore del museo Stedelijk di Amsterdam nel 1959 quando scrive : “1940-45/ sur l’europe c’est la nuit/ le règne du désespoir et de l’oppression/ pourtant une force demeure/ une puissance vitale, dréssée contre/ l’horreur et la sècheresse du présent/ (…) partout de petits groupes ou des individus se lancent/ avec vigueur dans des recherches osées…./ ce ne sont plus les recherches intellectuelles et paisibles/ ce sont les instincts qui s’emparent des moyens d’expression plastique/ partout éclate une vitalité bruyante/(…) une force torrentielle qui a envahi avec tout élan de l’instinct, la sagesse constructive”(1).
L’opera di Burri matura in particolare nel contesto italiano segnato da una fascinazione per tutto ciò che è ‘contemporaneo’ ed ‘internazionale’, a cui contribuisce pure il rientro in Italia di Lionello Venturi, storico dell’arte appassionato della modernità che sarà il maestro di Palma Bucarelli, Giulio Carlo Argan, Enrico Crispolti e Maurizio Calvesi. A Roma, inoltre, per volontà dell’artista futurista Enrico Prampolini che funge da anello di congiunzione con le prime avanguardie del secolo, nasce l’Art Club, un’organizzazione di artisti e critici la cui attività di realizzazione di mostre e di collegamento fra artisti e musei italiani e stranieri è fondamentale per il reinserimento dell’arte italiana nel percorso modernista internazionale dopo gli anni del realismo e del tonalismo entre deux guerres, e Burri esporrà le sue prime opere in diverse rassegne organizzate dall’Art Club. D’altra parte, gli anni cinquanta (e sessanta) sono percorsi da un’inquietudine dinanzi all’importazione di modelli americani, percepita come un vero e proprio colonialismo culturale. Proprio questa tensione fra il desiderio di internazionalizzazione da un lato, e la necessità di ritrovare o di affermare la propria identità italiana ed europea dall’altro, crea le condizioni per realizzare innovazioni linguistiche lontane dalle ricerche che si svolgono invece in continuità con le prime avanguardie formaliste e che caratterizzano molti degli sviluppi dell’astrattismo post-cubista francese del dopoguerra. Accanto alla questione dell’ europeicità dell’opera di Burri, e quindi della sua partecipazione alla lunga storia di un ‘centro’ culturale che si fonda sulla dialettica fra presenza e memoria, azione e riflessione, l’opera di Burri permette anche di considerare il valore di una cultura ritenuta marginale ma che, proprio dalla consapevolezza drammatica di essere inesorabilmente ai margini, trae energia : “Come ai tempi eroici del futurismo, con Alberto Burri è tornato a verificarsi lo strano fenomeno dell’avanguardia italiana: la novità più inquietante, e destinata a improntare gli sviluppi successivi, è nata nel paese di condizione economico-culturale più arretrata. Entrambe le volte il dislivello ha giocato il suo ruolo, anche se in modi opposti: come violenta reazione nel primo caso, come aspra consapevolezza nel secondo” .Dalla tensione fra quella consapevolezza e la persistenza di una forte tradizione culturale, fra la coscienza di nuove tematiche e di antichi valori, emerge in Burri la volontà di ribaltare la geografia del sistema dell’arte con la realizzazione del grande sogno che è la Fondazione Palazzo Albizzini – Collezione Burri aperta al pubblico nella nativa Città di Castello nel 1981: portare il ‘centro’ in quello che è ormai ‘periferia’ culturale, ma che si rivela assolutamente originale, opponendosi allo sradicamento tipicamente contemporaneo dell’opera dal suo contesto d’origine e così reinvestendo la modernità di nuova vitalità. Sebbene Burri appaia a posteriori soprattutto come uno dei primi artisti che sia riuscito, dopo il 1945, a riaprire il linguaggio dell’arte al flusso della vita e ai suoi materiali eterogenei nell’intento di calarsi profondamente nel dramma umano, egli muove i primi passi, per ragioni anche cronologiche, nell’ambito dell’arte informale, cioè di quelle ricerche artistiche che nell’immediato dopoguerra ripropongono nell’arte “un primato dell’espressione in senso individuale, puntando sulla materia, sulla tensione gestuale e sul recupero di un’immagine ingenua, incolta, degradata” , ove l’artista si esprime con macchie, dripping, scolature, graffi e materie spesso dense in una comunicazione pre-verbale fondata sul concetto che l’angoscia si può esprimere ma non descrivere. La qualità vi si misura in gradi di un’autenticità che ha poco a che fare con il razionalismo astratto-costruttivista della prima avanguardia. Giungere ad una conoscenza autentica implica ‘scegliersi’, aprirsi realmente alle cose riducendole alla loro manifestazione fenomenica, e in tal modo appropriarsene, per assumerle in un progetto di esistenza.Il famoso ‘silenzio’ di Burri è crisi della parola, inadeguatezza del linguaggio verbale moderno e razionale a risolvere il problema dello statuto della conoscenza per chi è uscito dalla guerra in preda ad un’intensa crisi morale. La concretizzazione dell’io è il suo progetto. Fra i primi amici e critici, il poeta Emilio Villa allude a problematiche esistenzialiste quando scrive di “…panorama terrifiants: des cendres dans les yeux, du sang dans les yeux, des débris et des sigles de névroses collectives, une exaspération défensive…..une réduction ad nihilum, le moment où l’homme n’est plus que la projection ou effraction d’une ténébreuse géométrie….réelle au sens pur… l’angoisse, la terreur et la révolte, les conditions techniques et les humeurs devinrent des aspects exemplaires…..C’étaient les matériaux les plus proches et les plus semblables à la fragilité et à l’incertitude du désert du monde, de l’absurdité totale et de l’incohérence de l’histoire” (4). Ma rispetto alla pittura più calligrafica e gestuale dell’informale ‘esistenzialista’, Burri non concepisce l’opera come forma di pura autoespressione, ed essa dice poco dell’interiorità specifica dell’artista. Nei sacchi, iniziati nel 1950 e giunti a maturità nel 1952, egli sostituisce le tracce di Wols con linee altrettanto curvilinee ma realizzate unendo una miriade di punti di sutura, che tolgono al quadro, quando esso è osservato da vicino, l’aspetto gestuale individuale – di traccia unica e continua che segue in modo fluido l’andamento di una mano guidata da impulsi profondi – e lo collocano nella dimensione temporale lenta di un gesto (quello del cucire) minuzioso, allusione all’utilità e all’eticità di un lavoro che “ripara” e “cura”, piuttosto che effetto di una abreazione psico-motoria. I primissimi lavori, come Texas (Paesaggio di Hereford) (cat.gen.1) realizzato durante la prigionia negli Stati Uniti nel 1944/1945, sono figurativi-naif, ma il loro espressionismo denso di materia già preannuncia la pittura successiva. Dopo il rientro in Italia nel 1946 ed a partire dal 1947 le sue opere dimostrano anche una nuova consapevolezza delle prime avanguardie astrattiste e soprattutto di Picasso, Arp, Mirò e Klee, nonché dell’impostazione strutturale neoplastica. Nell’anno del suo primo viaggio a Parigi (1948/49), e dopo l’incontro con l’ambiente romano dove Prampolini operava le sue ricerche polimateriche, Burri opera una svolta verso un informale materico fino ad allora assente nel panorama italiano. Egli introduce infatti nella sua pittura un catrame denso e pastoso, e non è possibile escludere che, a Parigi, fosse venuto in contatto con i lavori già materici di Fautrier e Dubuffet. Quando realizza i primi Catrami, nel 1948, la parabola internazionale dell’informale era insomma già in corso: l’invenzione del dripping di Pollock – che marca il significativo passaggio dal quadro dipinto in verticale a parete al quadro disposto per terra, che diventa una ‘arena’ dentro la quale agire – è del 1947 e le principali mostre di tachisme e informel a Parigi alla galleria di René Drouin sono già avvenute (Dubuffet vi espone nel 1944, Wols nel 1945, Fautrier i suoi Otages nel 1945). Nel 1948 Mathieu aveva già organizzato alla Galerie Montparnasse una collettiva con artisti informali francesi e le loro controparti americane, da Pollock a Kline e De Kooning. Ed in Italia, la polemica fra gli astrattisti di Forma, fondato nel 1947, e i fautori del realismo figurativo era già rovente. Ma Burri, nel panorama dell’informale internazionale, prende presto una strada innovativa autonoma che lo proietterà nella solitudine del pioniere: pioniere dell’identità fra segno e referente da un lato, pioniere della riduzione monocromatica che va di pari passo con l’oggettualizzazione tridimensionale del dipinto, dall’altra. Fautrier e Dubuffet, ancora in questo periodo, incidono infatti nella loro superficie materica le figure stilizzate e brut, conservando una seppur primitiva distinzione figura/sfondo, mentre i Bianchi e le Muffe di Burri sono segmenti di vera e propria materia e null’altro, quasi porzioni di superficie terrestre accidentata. Lo sfondo degli artisti materici ‘sembra’ muro, ‘sembra’ terra. La superficie di Burri è quello che sembra. Dal punto di vista dell’influenza di Burri sulle generazioni successive (5), la grande stagione dell’artista inizia dunque con opere come SZ1 (1949, cat.gen.48) dove porzioni di sacco pre-stampato sono lasciate bene in vista, e Sacco (1950, cat.gen.56) dove l’opera è quasi del tutto costituita dal sacco tirato su telaio e gli interventi pittorici sono ridotti al minimo, e soprattutto con i primi Grandi Sacchi del 1952 (Grande Bianco, cat. gen.116, Grande Sacco, cat. gen. 114 e Grande Sacco, cat.gen. 117) dove sono assemblati, oltre al sacco, frammenti di materiali logori e già segnati da un precedente uso come, ad esempio, scarti di vecchie tappezzerie. Senza optare per l’astrattismo, dunque, Burri abbandona del tutto la mimesi pittorica e ricorre alle cose stesse inventando una forma più autentica di realismo non mimetico: la tradizionale scissione tra forma e contenuto viene eliminata dalla identità fra segno e referente. Se si pensa che nello stesso anno 1952 in cui Burri apre così la strada alla riappropriazione semiologica del reale, il critico Harold Rosenberg conia il termine action painting in occasione di un articolo pubblicato sulla rivista “Art News”, si comprende bene quanto fosse anticipatoria l’operazione dell’artista umbro. Burri, all’inizio, viene interpretato come il creatore di un particolare genere di arte informale densa di allusività esistenziale alla ferita e alla lacerazione del corpo dopo la tragedia della seconda guerra mondiale. Sono i critici della generazione successiva, da Maurizio Calvesi a Pierre Restany, e gli artisti romani della cosidetta Scuola di Piazza del Popolo che alla fine degli anni cinquanta e nei primi anni sessanta ruotano attorno alla galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis, intenti al prelievo semiologico di elementi del contesto urbano, ad attribuirgli un primato di apertura al reale, in antitesi sia con l’astrazione lirica e segnica dell’informale sia con l’astratto-concreto ed il post-cubismo del dopoguerra. In pieno informale, dunque, Burri, come Joseph Cornell in America ed il primo lavoro di Antoni Tapiès in Spagna , si riallaccia alla tradizione del collage delle prime avanguardie, introdotto da Pablo Picasso nonché dai futuristi italiani nel “Manifesto tecnico della scultura futurista” (1912). Il collage, sviluppato da Prampolini, da Sonia Delaunay, da Kurt Schwitters, nonché dai surrealisti, in linea generale implica l’utilizzazione nell’opera pittorica di elementi e materiali, naturali o artificiali, non artistici e non realizzati dalla ‘mano’ dell’artista. Il collage è il mezzo attraverso il quale l’artista ha potuto incorporare la realtà nella pittura senza imitarla, sollevando dunque questioni di fondo sulla natura del reale e sulla natura della pittura. Nel lavoro di Burri le ‘cose’ presenti nel quadro non sottolineano una loro differenza rispetto alla materia pittorica. Al contrario, i materiali eterogenei sono utilizzati come materia dell’opera e perdono la loro definizione oggettuale nel magma di cui vengono a fare parte. L’afflato informale si cala nella realtà e da questa riappropriazione soggettiva del contesto contemporaneo ‘mediato’ riparte il lavoro sull’assemblaggio neo-dadaista e l’ambiente urbano che si svilupperà con Arman, Daniel Spoerri, Ed Kienholz, Jim Dine, Allan Kaprow, Claes Oldenburg, giungendo fino all’installazione percorribile dallo spettatore. L’accettazione nell’opera di frammenti di lettere stampate sui sacchi precede, sebbene con valenze del tutto diverse, l’uso dei segni di Jasper Johns e della successiva Pop art. Come i Concetti spaziali, ‘Buchi’, di Lucio Fontana, i quadri di Ad Reinhardt o i dipinti tutti bianchi o tutti neri di Rauschenberg, anche le riduzioni a tutto nero o a bianco dei primi anni cinquanta di Burri parlano, ma con motivazioni diverse, dell’azzeramento del colorismo informale e questa riduzione cromatica caratterizzerà numerose ricerche successive alla fine degli anni cinquanta e nei primi anni sessanta, dai monocromi di Yves Klein agli Achrome di Piero Manzoni e alle opere del Gruppo Zero, dagli Schermi di Fabio Mauri ai monocromi veloci di Mario Schifano. Di nuovo come Fontana, i Gobbi di Burri annunciano una nuova relazione del quadro con lo spazio ed il tempo dello spettatore; ma, se Fontana ha ‘bucato’ la tela per farvi passare la luce, per farvi entrare lo spazio e creare un ambiente reale dell’opera, Burri ha forato la tela e ricucito le proprie ferite, lavorando sul corpo del dipinto ed entrandovi letteralmente all’interno, ed ha fatto ‘crescere’ la tela in avanti a partire dal primo Gobbo del 1950, invadendo lo spazio prospisciente e così annunciando ricerche successive quali quelle di Salvatore Scarpitta, Cesare Tacchi, Pino Pascali e Jannis Kounellis. La lacerazione, la fenditura, la cucitura, lo scavo e il rigonfiamento della tela segnano il momento chiave in cui l’artista si assume il rischio di posizionarsi al limite della superficie. Michelangelo Pistoletto, con i suoi quadri-specchianti, proietterà questa posizione nello spazio-tempo dell’opera. L’uso di materiali eterogenei, poveri, naturali ed artificiali, logorati dal tempo oppure nuovi ma che comunque hanno perso la loro forma statica ed ‘oggettuale’ originaria attraverso la combustione (i fogli di ferro, di legno o di plastica), che recano la memoria di un ciclo vitale ed organico naturale nel quale sono stati trasformati, preannuncia indirettamente l’organicismo di certa arte povera e Land art che ribalterà l’ordine formale di Burri. Mentre i Catrami conservano una struttura a reticolo caratteristica della pittura modernista, le Muffe e i primi Bianchi “crettati” del 1950/53 propongono una materia che si struttura in parte da sola e di cui l’artista accetta le vicissitudini anche casuali, assecondando un’estetica organicista ed informe che si ritroverà nell’arte dei secondi anni sessanta .Robert Smithson, Mario e Marisa Merz, Jannis Kounellis, Gilberto Zorio, Eliseo Mattiacci ed altri artisti immetteranno lo stesso flusso organico nell’opera così come Pistoletto farà proprio degli stracci l’elemento vitale di molti lavori. E l’opera di Burri ha offerto e offre tuttora una via da seguire ad artisti che, in tutto il mondo, lavorano sul crinale fra arte e realtà, coinvolgendo materiali e comportamenti nelle loro opere. Nella elaborazione che artisti di civiltà antiche ma di recente modernizzazione hanno dovuto percorrere in contesti culturali non occidentali e postcoloniali, invece, il lavoro materico di Burri, accanto a quello di Dubuffet, Fautrier e Tàpies, ha offerto una via di uscita dalla obbligata imitazione del formalismo elegante della scuola di Parigi nel secondo dopo-guerra (Manessier, Bazaine, Singier, Herbin ecc.), come pure dalle certezze e dall’assertività dell’ action painting, troppo lontana dalla propria densa complessità culturale. L’uso di superfici materiche come le hautes pâtes di Fautrier e Dubuffet, i ‘muri’ di Tàpies e i sacchi suturati di Burri permetteva di ‘incidere’ – letteralmente e metaforicamente – la propria identità culturale nelle loro opere pur restando all’interno di una ricerca fondamentalmente modernista, come si vede, ad esempio, nei lavori di artisti indiani quali Jeram Patel, Swaminathan, Jyoti Bhatt e Moham Samant del Gruppo 1890 fondato a Dehli nel 1963. Diversi di questi artisti vennero direttamente in contatto con il lavoro di Burri grazie alla permanenza in Italia negli anni cinquanta e sessanta. Le cose e i segni Se alla fine degli anni cinquanta, Milano assume una grande importanza per la presenza di Lucio Fontana, Piero Manzoni e del Gruppo Azimuth, all’inizio della decade Roma appariva un centro internazionale di maggior rilievo . Burri vi espone opere figurative alla galleria La Margherita diretta da Gaspero Dal Corso e Irene Brin nel 1947 e mostra i primi lavori astratti l’anno seguente nella stessa galleria. Conosce Ettore Colla ed aderisce al Gruppo Origine con Colla, Capogrossi e Ballocco, esponendo diversi Catrami nella mostra collettiva degli stessi artisti nella sede di Via Aurora, casa di Colla, che diventa così la Fondazione Origine (1951). Pur seguendo una via diversa, dunque, al di là dell’opposizione astratto/figurativo che animava il dibattito all’epoca, Burri partecipa alla mostra “Arte astratta e concreta in Italia” organizzata dall’Art Club alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna nel febbraio 1951. Del 1952 è la personale “Neri e muffe” alla galleria L’Obelisco diretta da Gaspero Dal Corso. Sebbene l’estate Burri sia alla Biennale di Venezia con due opere, l’artista non è ancora molto noto in Italia quando il gallerista Allan Frumkin gli fa visita a studio nel 1952, proponendogli la personale per il gennaio seguente a Chicago. Anche James Johnson Sweeney, allora direttore del museo Guggenheim di New York, a Roma da Colla per sollecitare il rientro di alcune opere prestate dal suo museo, conosce il lavoro di Burri e ne rimane folgorato, decidendo subito di invitarlo a “Younger European Painters” che apre nel dicembre 1953 al Guggenheim di New York. Burri ha dunque un pubblico oltreoceano ancor prima di essere veramente riconosciuto in patria. Espone a Chicago alcuni Bianchi, i suoi Sacchi nonché un’importante Gobbo del 1952 (cat.gen.111), descritto minuziosamente in una recensione della mostra e che precorre di molti anni le prime tele aggettanti del Gruppo Zero, di nonché le Shaped Canvases di Frank Stella e Ellsworth Kelley . Dell’aprile 1953 è la personale alla Fondazione Origine presentata da Emilio Villa, ma soltanto dopo la mostra personale del 1954 a L’Obelisco, la partecipazione alla Quadriennale del 1955 e la personale alla galleria La Loggia di Bologna nel 1957, presentata da Francesco Arcangeli, Burri viene veramente alla ribalta in Italia fuori da circoli piuttosto ristretti. A questa epoca, Robert Rauschenberg era già stato a Roma e aveva incontrato Burri, era tornato in America ed aveva sviluppato le sue opere maggiori. La questione del rapporto fra Rauschenberg e Burri è ancora aperta, nonché particolarmente dibattuta in Italia. E’ noto come Rauschenberg, dopo un periodo passato al Black Mountain College in North Carolina nel 1951 durante il quale eseguì i suoi White Paintings e i primi Black Paintings, venne a Roma con Cy Twombly nell’autunno 1952 per poi ripartire alla volta del Nord Africa a novembre e rientare a Roma per un periodo nel febbario 1953. L’artista americano visitò allora lo studio di Burri dove si trovavano esposti i tre Grandi sacchi del 1952, che l’artista avrebbe voluto esporre alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna nel 1952 in occasione della 6° mostra annuale dell’Art Club, ma che non lo furono a causa dell’opposizione di Prampolini: “Rauschenberg venne a visitarmi in studio nel 1953…per due volte, due giorni consecutivi, stette lì a lungo a guardare e mi lasciò in regalo una scatoletta con dentro della sabbia e una mosca morta…”. I due artisti condividevano alcune gallerie. Nel marzo del 1953, infatti, Rauschenberg espone a L’Obelisco ‘scatole e feticci personali’ eseguiti durante il viaggio in Nord Africa; sempre a marzo espone alla Galleria d’Arte Contemporanea di Firenze, dove anche Burri ha una personale lo stesso anno. La prima grande mostra di Rauschenberg a New York è dopo il suo rientro in America alla Stable gallery di Eleanor Ward nel settembre 1953 ed è seguita dalla prima mostra personale newyorkese di Burri nel dicembre dello stesso anno, una mostra che Rauschenberg stesso volle fotografare (11). Le opere che Rauschenberg aveva esposto prima del viaggio europeo, nella mostra da Betty Parsons a New York nella primavera del 1951, comprendevano già alcuni dipinti con il catrame nonché collage con mappe o carta di giornale, ma la loro composizione evidenziava ancora una struttura figura/sfondo statica ed il grande materismo di Rauschenberg, così come si vede pure dagli ultimi dipinti monocromi neri iniziati a Black Mountain ma completati a New York nella primavera del 1953, è successivo all’incontro con Burri. Il monocromo rauschenberghiano sviluppa uno spazio pittorico senza illusione di profondità spaziale di modo da accentuare l’aspetto fattuale e non mimetico del materiale utilizzato. Se dunque il monocromo bianco o nero vero e proprio viene realizzato prima da Rauschenberg attorno al 1951, egli vi attribuisce una componente materica importante dopo aver visto il lavoro di Burri ed espone i frutti di tale ricerca nella mostra alla Stable gallery nell’autunno 1953. La grande serie dei Red Paintings e i primi Combine paintings di Rauschenberg, della seconda metà del 1954, come Untitled (Red painting) (1954), Bed (1955), Charlene (1954) e Rebus (1955), esposti alla Egan gallery nel 1954, è basata invece su di una strutturazione orizzontale di frammenti di stoffe, fotografie ed altro materiale vario dove la pittura si coniuga con, ed in parte ricopre, i materiali prelevati in una composizione architettonica che valorizza la superficie piana articolata in parti diverse e congiunte, proprio come nei tre Grandi sacchi di Burri. Al di là di discussioni sulle reciproche precedenze, comunque, occorre ricordare che, mentre la maggior parte degli artisti dell’epoca era impegnata ancora nell’astrazione lirica e nell’espressionismo astratto, Rauschenberg e Burri, invece, prendono la vita reale di petto: il primo, per fissare attimi di ‘presente’, momenti del flusso delle cose e di immagini ‘mediate’ che scorrono nel mondo senza troppo comporle; il secondo, al contrario, per accogliere il flusso caotico ed imprevedibile della vita imbrigliandolo e pacificandolo in una stasi equilibrata; entrambi gli artisti, sempre con finalità diverse, utilizzeranno l’oro a partire dal 1953, ma nei Sacchi con oro di Burri (12) l’oro è circoscritto ad una piccola parte, come fosse una indicazione delle possibilità di trasformazioni materiche negli scarti, mentre i Gold Paintings di Rauschenberg (1953ca.) sono veloci monocromi dorati sopra carta di giornale. Anche Klein utilizzerà l’oro in senso alchemico-spiritualista nella seconda metà degli anni cinquanta. Nel maggio-agosto 1955, Burri espone di nuovo alla Stable gallery e nell’importante rassegna “The New Decade: 22 European Painters and Sculptors” al Museum of Modern Art accanto a Dubuffet, Bacon, Afro, Capogrossi, Soulages, e altri. La mostra viaggia a Minneapolis, a Los Angeles e a San Francisco. Due anni dopo, nel 1957, al Carnegie Institute si tiene la prima grande retrospettiva di Burri che viaggia anche a Chicago, Buffalo e San Francisco. Nel 1958 lo stesso Sweeney include Burri nel “Guggenheim International Award” con Nero Bianco Nero (cat. gen. 394). L’opera Two Shirts (cat.gen.518), che parla di una volontà di comporre la ‘pelle’ dell’uomo in una stasi pacificata, è in mostra al Carnegie di Pittsburgh nel 1957 e, nel 1959, è presente nella stessa edizione di Documenta a Kassel in cui Werner Haftmann invita Rauschenberg ad esporre Bed (1955). In una mostra collettiva alla Martha Jackson gallery di New York nel 1960, inoltre, Burri espone Am-lire (1952ca.), un piccolo sacco con vere banconote usate nell’immediato dopoguerra italiano, di impianto pienamente New-dada. Sono opere, tutte queste, che aprono la strada alla riappropriazione semiologica del contesto urbano e ‘mediato’ nell’opera, così come il sacco stampato che si ritrova in diverse opere di Burri che alludono al trasporto di derrate alimentari nell’Europa distrutta dalla guerra: in SZ1 (1949), appaiono un frammento di ‘stelle e strisce’ , la parola ‘europea’ e l’indicazione di un peso, ‘140lbs Gross weight’. La bandiera è di nuovo presente in Nero Bianco del 1951. Nomi di luoghi lontani, da cui provengono le derrate, come ‘Canada’, ‘Haiti’ o ‘Congo Binga’, nomi delle stesse derrate come ‘Wheat’ oppure di porti d’arrivo scritti in inglese come ‘Genoa’ aggiungono connotati esotici e drammatici alle opere che vivono in un mondo di lavoro e di fatica, di commerci e di sradicamenti, di guerre e di esili, in un mondo che non potrà mai più essere l’Umbria medievale della giovinezza. Se Burri anticipa l’uso di segni mediati che dalla Pop art giunge fino ad oggi in molte indagini artistiche, egli non condivide alcuna fascinazione per il mondo della pubblicità e dei media, ed i suoi segni parlano del peso delle cose trasportate, non della superficie né dei “marchi”. Ma non è certamente un caso se Burri è invitato da William Seitz a partecipare all’importante rassegna “The Art of Assemblage” al Museum of Modern Art di New York nel 1961, una esposizione che raccoglie opere dal collage cubista fino alle nuove ricerche assemblaggistiche, che segna nettamente il mutare delle sensibilità nel momento di massimo sviluppo delle poetiche new dada e pop e che, dalle generazioni successive, sarà ritenuta una mostra sparti-acque. Il confronto dell’arte con la realtà urbana e quotidiana, nonché con il mondo della cultura di massa, si è sviluppato contemporaneamente su entrambi i lati dell’oceano e alcuni nuovi fermenti, già presenti nella seconda metà degli anni cinquanta, vengono coagulati da Pierre Restany a Parigi sotto il nome di “Nouveau réalisme” attorno al 1960, e sono presenti nella mostra newyorkese “The Art of Assemblage”. I rapporti di Burri con Parigi, dopo la prima partecipazione nel 1949 al “Salon des Réalités Nouvelles”, sono mediati dal critico Michel Tapié che vede il lavoro di Burri a Roma nel 1954. Tapié, teorico e grande tessitore di contatti culturali, aveva a quella data già pubblicato il volume Art autre (1952), senza dunque poter citare Burri. Ma è lui ad invitare Burri a partecipare ad una mostra a due con César (futuro ‘nouveau réaliste’) per le affinità che egli vedeva tra l’uso di materiali recuperati in Burri e le piccole sculture fatte a partire dal 1954 con ferri vecchi dall’artista francese. La mostra è nel 1956 alla Galerie Rive Droite ed è in questa occasione che il critico Pierre Restany incontra l’opera di Burri. Particolare risalto avrà poi nel 1961 la personale di Burri alla Galerie de France. Una caratteristica dell’assemblaggio ‘urbano’ del nouveau réalisme è la valorizzazione dello scarto, di ciò che viene gettato via, che non è assimilabile. Burri, però, non condividerà mai l’estetica del ‘brutto’ che accompagna l’elogio dello scarto ed anima artisti quali Spoerri o Arman ed il suo uso di materiali scartati rimarrà sempre permeato dalla drammaticità esistenzialista e post-bellica del tema della sopravvivenza e del ‘recupero’, nonché da un’idea alta di arte come ‘cura’.
Nella seconda metà degli anni cinquanta, Restany era alle prese con la costruzione dell’identità del nuovo movimento. Nell’ottobre 1957 si tiene la prima mostra di décollages, manifesti strappati, di Raymond Hains e Jacques de la Villeglé presso la galleria Collette Allendy. Nell’aprile 1960, Restany redige la presentazione della mostra collettiva alla galleria Apollinaire di Milano e parla di “La passionante aventure du réel percu en soi et non à travers le prisme de la transcription conceptualle ou imaginative”. Mimmo Rotella, i cui décollages sono pubblicati su “Arti Visive” nel 1954, prende le mosse dal lavoro di Burri ed aderisce nel 1960 al Nouveau réalisme. Nel 1962, Restany pubblica un saggio su Burri nella rivista “Cimaise” dove non cita il nouveau réalisme, nei quali ranghi allora militava, ma vi allude indirettamente affermando che Burri non usa oggetti specifici e non sviluppa una poetica del recupero dello scarto bensì utilizza campioni anonimi di materiali. Nel volume Les Nouveaux Realistes, invece, Restany rende comunque omaggio all’informale materico quale ponte fra l’astrattismo lirico e l’arte di appropriazione del reale: “Fautrier, Dubuffet, Burri e Tàpies ont joué, par leurs recherches de matière, un role important dans la définition historique d’une nouvelle expressivité. Ils ménagent l’indispensable tyransition entre les attitudes traditionnelles visant à la transcription ou à la représentation d’un donné naturel ou affectif, et tous les phénoomènes contemporains tendant à l’appropriation directe du réel…Les multpiles effets de matière d’un Burri, depuis les toiles de sac jusqu’aux planches de bois brulés et aux fers oxydés: voilà les premières manifestations d’un parti pris sociologique dans la création artistique. L’entrée de la sociologie dans l’art est encore discrète”
La riduzione monocromatica e l’oggettualizzazione della superficie Nero 1 (1948, cat. gen.25) è un’opera dove uno strato di denso catrame sembra avere ricoperto del tutto un piccolo quadro ad eccezione di una macchia rossa in basso a sinistra e di una ‘finestra’ in alto a destra, in dentro rispetto al livello del catrame, e colorata di blu celeste. Il nero lucido si ritrova accanto al nero opaco e questo accanto a parti in nero crettato, come se l’oggetto del dipinto non fosse né la figurazione, né l’astrazione bensì l’esperienza tattile delle materie attraverso la vista, così come è stato anche negli ultimi solenni lavori su cellotex quali i dipinti del ciclo Annottarsi (1985). Burri voleva uscire dalla policromia per strutturare il dipinto esclusivamente in base alle diverse trame del materiale. Lo stesso nome di Origine, gruppo al quale Burri aderisce alla fine del 1950, indica una volontà di riduzione all’essenziale che caratterizzerà i suoi lavori monocromatici, ed è significativo della visione concreta e non astratta dell’artista il fatto che egli, contrariamente a Klein, non ha mai chiamato le sue opere ‘monocromi’ bensì li abbia sempre indicati con il nome del colore usato, oppure del materiale. I Catrami del 1948/49 annunciano così la riduzione del cromatismo e della gestualità dell’informale ‘d’azione’ che si ritrova chiaramente nelle opere Tutto nero dei primi anni cinquanta e che anticipa la riduzione al monocromo della fine della stessa decade. Opere come Bianco (1949, cat.44), realizzato con bianco di zinco e pietra pomice, o Bianco (1952, cat. 125), realizzato con vinavil e pigmento, determinano una materia granulosa che si gonfia d’aria e si crepa ed è a questi che si riferisce Emilio Villa: “Et voici à partire de 1951 les pl^atres, le blanc parfait, la délicate désespérance de la monochromie comme una contemplation active et consciente et un renoncement ascétique” . Il grande Tutto bianco (1958, cat. gen.1028) esposto alla Biennale di Venezia del 1958 (Biennale visitata da Klein) è anche una perfetta superficie monocroma crettata. La ricerca sul monocromo di Burri partecipa di un senso esistenzialista della pittura che è anche di Barnett Newman, Mark Rothko e Ad Reinhardt e corre parallela da un punto di vista cronologico, come s’è detto già, alle produzioni di Rauschenberg, ma è motivata da ragioni diverse. Klein, che ha potuto vedere la mostra di Burri nel 1956 alla Rive Droite, esporrà i suoi monocromi polverosi di pigmento rappreso, a cui lavorava già dal 1954, nell’ottobre 1956 alla casa editrice Lacoste e poi nel febbario 1957 alla galleria Collette Allendy di Parigi. La proposta di Klein, più giovane di Burri di 13 anni, emerge dalla passione per il vuoto e lo Zen nonché per un concetto di pittura come puro colore e pura sensibilità per raggiungere i quali era necessario eliminare l’aspetto gestuale e soggettivo dell’artista, e fare galleggiare il dipinto nello spazio scostandolo dal muro e smussandone i contorni. Fontana a Milano e Burri a Roma sono due figure nodali negli anni cinquanta e sessanta. Fontana ha un’atteggiamento aperto alla comunicazione, conosce Klein a Milano nel 1957 in occasione della mostra dei monocromi blu alla galleria Apollinaire, diventa un padre putativo del Gruppo Zero, sostiene Manzoni ed Enrico Castellani e la breve avventura di Azimuth. Burri, al contrario, è schivo e poco propenso a proclami, gruppi e manifesti. Ma entrambi hanno postulato nuove possibilità lavorando sul limite della superficie piana e aprendo l’opera allo spazio reale. I primissimi ‘buchi’ di Fontana sono del 1949 mentre i suoi famosi ‘tagli’ sono successivi, realizzati a partire dal 1957; gli ‘strappi’, sacchi lacerati verticalmente che Burri recuperava e ‘suturava’, evidenziando comunque l’apertura, sono realizzati a partire dal 1952. Fontana acquista lo Studio per lo strappo (1952, cat.gen.108) visto alla Biennale di Venezia nel 1952 e decide di esporlo insieme ad altre opere della sua collezione in una mostra alla galleria Blu di Milano nel maggio 1957 (15). Fontana muore nel 1968, agli albori di una rivoluzione dei paradigmi dell’arte che egli aveva contribuito a realizzare. Burri, al contrario, vivrà fino al 1995 e potrà vedere (senza comunque condividere) la rottura praticata dall’Antiform e dall’Arte povera ed il torrente che rompe gli argini del quadro, che egli stesso, come Fontana, aveva contribuito a riempire. Egli non condividerà l’evidenza di questo sconfinamento e, dal 1968/69, le sue opere si faranno più pacate e meditative, formalmente equilibrate e sottilmente materiche. I Cretti degli anni settanta sono estremamente controllati ed i Cellotex sui quali lavorerà fino all’ultimo evocano le forme dei suoi dipinti precedenti, ma sono fondati su contrasti materici realizzati grazie alla spellatura del materiale, piuttosto che all’aggiunta di materie o alla lacerazione della superficie.
Quando Burri è già all’apice della notorietà, a Milano Manzoni e Castellani, attenti ammiratori dello spazialismo di Fontana, fondano la rivista e lo spazio Azimuth. I primi Achrome di Manzoni, che assomigliano anche ai Bianchi crettati di Burri, sono del 1957/58 ed indicano nella riduzione cromatica e nella presenza oggettuale e materica del dipinto in caolino, una via di uscita dalla pittura ‘onirica’ precedente. Prima di realizzare i suoi Achrome, Manzoni aveva visto la mostra dei monocromi blu di Klein che si era inaugurata il 2 gennaio 1957 a Milano alla galleria Apollinaire di Guido Le Noci e, con ogni probabilità, anche la personale di Burri inaugurata pochi giorni dopo alla galleria del Naviglio di Carlo Cardazzo. Sulla rivista “Azimuth” (1959-60) Manzoni non pubblicherà mai immagini di opere di Burri, sebbene sul primo numero appaiono diversi artisti a lui ispirati come Rotella, Angeli e Marotta. La parabola degli anni cinquanta sta infatti finendo e Burri, come Vedova e Fontana, è già agli occhi di artisti più giovani un maestro di una generazione di ‘padri’ ma anche, contrariamente a Fontana, un esponente dell’informale da cui gli artisti di Azimuth volevano prendere le distanze. Al volgere degli anni cinquanta, la riduzione della soggettività drammatica dell’arte informale si avverte sia a Roma che a Milano. Mentre a Milano ed in Nord Europa, con Fontana, Manzoni, Castellani e il Gruppo Zero (fondato nel 1957 a Dusseldorf da Piene e Mack e al quale aderisce Klein e, nel 1960, Uecker) questa è segnata da una volontà di azzeramento di ogni traccia umana nell’opera che si apre allo spazio reale come ambiente e luce realizzando strutture nitide e asettiche, a Roma la riduzione prosegue per la via materica, e i monocromi di smalto di Schifano sono dipinti velocemente, e conservano tracce di sgocciolature. La ‘crescita’ del dipinto, la sua espansione nello spazio va di pari passo con la riduzione monocromatica: è nei Rilievi planetari di Yves Klein (1961) e negli Achrome di Manzoni fatti con bende piegate e caolino, oppure con ovatta o altro materiale, ed è realizzata da Burri con materie dense come il catrame o il bianco di zinco con vinavil, con l’inclusione di stoffe e brandelli di abiti e, soprattutto, con i rari Gobbi (di cui attualmente esistono poco più di sei esemplari). Il primo Gobbo (1950, cat.gen. 55) fu realizzato a Le Fienaie sopra Città di Castello, facendo sporgere la tela in avanti dopo averla dipinta a olio grazie ad una struttura di rami d’albero incrociati sul retro del telaio, e fu esposto quasi subito, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma nella mostra “Arte astratta e concreta in Italia” organizzata dall’Art Club nel 1951 (16). La tela tesa, e che si deforma per via della pressione retrostante, ricorda i rilievi del terreno e le colline umbre quasi che la pittura potesse crescere organicamente come la terra e riprende la ricerca sul rilievo delle prime avanguardie, già presente ad esempio nei collage di Hans Arp. Tele aggettanti saranno realizzate, in seguito, da Victor Pasmore in Inghilterra nei primi anni cinquanta, nonché da Rauschenberg e da Kelley del 1951 e poi da Castellani e dal Gruppo Zero. Castellani, che all’epoca non conosceva i Gobbi, ha sviluppato nel 1959 le sue Superfici a partire dalle premesse spazialiste di Fontana, non come ‘crescite’ e ‘lievitazioni’ organiche del dipinto, bensì come desiderio di articolare la superficie e di strutturare lo spazio con la luce, senza elementi pittorici, di modo da renderlo in sé percettibile dallo spettatore. Se Burri fa lievitare la materia, Castellani vuole dunque smaterializzare al massimo l’opera. Dai Gobbi prendono invece direttamente le mosse le ricerche in ambito romano: le tele di Salvatore Scarpitta, le opere pre-poveriste in tela sagomata di Pino Pascali, i dipinti su stoffe imbottite di Cesare Tacchi, le ‘finestre’ di Tano Festa e perfino i quadri Senza titolo con le rose di stoffa oppure con le gabbie di uccelli di Jannis Kounellis, del 1967. Energia naturale, materia organica Se il Gobbo di Burri è crescita della tela nello spazio, le Muffe alludono alla crescita della materia biologica, ad una vitalità organica con la quale l’uomo si misura e ad un mondo naturale del quale l’uomo fa parte integrante anche se crede di poterlo dominare da una posizione esterna e superiore. I materiali di Burri, anche quando sono in partenza dei prodotti ‘artificiali’, come nel caso del sacco di iuta, o della plastica che Burri inizia ad adoperare già nelle combustioni del 1957 ma che diventa prevalente con la grande stagione delle plastiche combuste a partire dal 1961, del foglio di legno, usato a partire dal 1956 (un grande Legno con combustione è alla Biennale di Venezia nel 1958), del ferro, adoperato dal 1957 (i Ferri sono esposti dal 1958 in diverse mostre tra cui alla galleria Blu di Milano), sono soggetti alla furia degli elementi, sono materia vivente colta nel flusso energetico che la attraversa e che collassa entropicamente in un magma informe: il sacco tirato si deforma e si slabbra esibendo la natura organica ed il profumo umido della iuta; la porosa pietra pomice cattura l’aria nel quadro, lo gonfia e lo fa respirare; la pittura, asciugandosi, si spacca in crettature, come un terreno arso dalla siccità; la plastica, materiale sintetico per eccellenza, emblema della modernità innaturale, poiché nulla nel mondo è solo prodotto dell’uomo, torna ad essere petrolio nero, elemento della terra, dopo la combustione. L’esplorazione da parte di Burri di un’estetica della natura (17) dove la materia è realtà vivente e l’artista riflette sui legami e le relazioni fra natura e cultura che forgiano il destino dell’uomo, precorre l’estetica del flusso energetico che caratterizzerà molte esperienze degli anni sessanta, dall’Arte povera all’Antiform alla Land Art. In un abbraccio quasi melvilliano o faulkneriano, la camicia in Burri diventa un lembo di uomo nella furia di una natura paurosa e potente, il sacco una pelle che respira dai pori, l’opera un organismo. Nel tentativo di distinguere le opere di Burri dalla tradizione del collage, Sweeney stesso nel 1955 aveva già intuito questa nuova possibilità della materia: “Quello che per i cubisti si sarebbe ridotto alla parziale intensificazione di una composizione dipinta – a una protesta, per i Dadaisti – a una fantasia illustrativa per i Surrealisti – ad un Merzbild per Kurt Scwhitters, per Burri diventa un organismo vivente: carne e sangue…. Se i Cubisti parigini del principio del secolo e i russi come Tatlin, in un periodo di scomposizione delle forme pittoriche, si servirono del mezzo del collage per rendere il senso della realtà, Burri con i suoi collages ci dà un senso della materia vitale in un’epoca di riconosciuta riduzione ed astrazione” . Negli ultimi anni cinquanta e nei primi anni sessanta, si sviluppa a Roma una scuola di artisti – la cosidetta Scuola di Piazza del Popolo – che riconosce direttamente in Burri un precursore e che interroga semiologicamente il nuovo contesto urbano permeato dai segni di una civiltà dell’immagine: Rotella, Mauri, Schifano, Tano Festa, Franco Angeli e poi Cesare Tacchi, Renato Mambor, Sergio Lombardo, Titina Maselli e Giosetta Fioroni, fra gli altri. Essi vedono in lui non il profeta dell’informale materico bensì colui che ha fatto entrare la realtà quotidiana nell’opera. Due artisti di questa stessa area, Pino Pascali e Jannis Kounellis, di lì a poco diventeranno protagonisti dell’Arte povera che, parallelamente ad altre esperienze internazionali, mette in dubbio le certezze scientiste dell’arte programmata da un lato, e la cultura dell’anonimato della Pop Art, dall’altro, per riscoprire una forma di soggettività che si esprime processualmente in una riduzione fenomenologica dell’esperienza conoscitiva consentita da un’interazione con i flussi energetici che attraversano la realtà. Fuori dall’Italia, Richard Long, Barry Flanagan, Jan Dibbets, Joseph Beuys, e in America Bob Morris, Bruce Nauman e altri sviluppano parallele estetiche prima ‘fluxus’ e poi ‘antiform’ in cui ricorrono spesso forme morbide e malleabili come il feltro di Beuys e di Morris. Quest’ultimo viveva a San Francisco quando, nel 1958, la già citata mostra personale di opere di Burri proveniente dal Carnegie Institute di Pittsburgh, è presentata al museo di quella città. Nel vedere i Sacchi degli anni cinquanta di Burri, con il loro esplicito riferimento all’energia e alla intima interconnessione fra fatti culturali e fatti naturali, è difficile non pensare all’uso che un artista come Beuys ha fatto del feltro come conduttore termico, sebbene l’artista tedesco sia quello della parola e della presenza del corpo per antonomasia mentre Burri, al contrario, si sia proposto sotto forma di assoluto silenzio e assenza davanti alla materialità dell’opera. Non sappiamo se Beuys visita la grande mostra che Paul Wember dedica a Burri nel 1959 al museo di Krefeld; sappiamo comunque che egli partecipa alla terza edizione di Documenta a Kassel nel 1964 dove sono esposte opere di Burri. I due artisti si incontreranno personalmente molti anni dopo, nel 1980 a Perugia, in occasione di un evento pubblico organizzato dall’amico di Burri, Italo Tommassoni. I due condividono una visione alta del compito dell’arte nonché della relazione fra pratica estetica ed etica; condividono l’esperienza della guerra, l’uso di materiali legati al quotidiano, poveri ma dignitosi all’interno di una visione organica dell’arte e della vita. Ma se l’artista italiano rimane fino in fondo un artista moderno, senza uscire mai dai confini del quadro che costituiscono la proiezione di un Io unitario e centrale, Beuys apre invece l’opera alla processualità della comunicazione con le sue azioni fluxus e poi con vere e proprie ‘sculture sociali’. Per quegli artisti dell’arte povera che hanno apprezzato Burri (Kounellis e Pascali certamente, ma anche Zorio, Pistoletto, Merz e Anselmo) e per artisti quali Mattiacci, la sua opera rappresentava la volontà di affrontare anche drammaticamente l’identità e la storia europea, nonché un esempio diretto delle possibilità di utilizzare la realtà direttamente, senza mediazioni. Kounellis è, fra tutti gli artisti che hanno guardato a Burri, forse l’erede più diretto, anche se diversi altri, da Delacroix a Van Gogh e Pollock, sono stati amati dall’artista di origine greca . Egli lascia la Grecia ed approda a Roma nel 1956, l’anno in cui Burri espone alcune opere alla Biennale di Venezia, e un anno prima di una collettiva romana dove Burri espone diverse opere affianco a Afro e Toti Scialoja alla galleria La Tartaruga (ed è bene ricordare che Scialoja, grande estimatore di Burri, era il professore di Kounellis in Accademia). Gli stampi sui sacchi diventano quadri dove aleggiano segni neri di un nuovo alfabeto, il legno combusto diventa carbone in cumuli, il sacco non è più composto nel quadro ma usato proprio come contenitore, la combustione diventa fuoco vivo, il ferro esce dal quadro e diventa il carrello o il contenitore per il carbone. Ma i due artisti non condividono soltanto l’uso di elementi della vita quotidiana per fare di loro l’alfabeto di un nuovo linguaggio, bensì anche la visione dell’atto artistico come atto etico e la volontà di rigore compositivo che bilancia l’apertura al reale. E’ di entrambi un senso forte della storia e della coscienza europea nonché un’acuta percezione della tragedia che tale cultura si porta come inevitabile bagaglio. In un’intervista con Marisa Volpi sul tema delle tecniche e dei materiali utilizzati, Kounellis indica come la sua ricerca vada nella direzione del ‘vero’ e dell’ ‘autentico’ e prende come esempio di ‘autenticità’ proprio l’opera di Burri, opponendola a quella di Tàpies: “Il mio lavoro è assolutamente antiscenografico, c’è la stessa diferenza tra il naturale e il naturalista: Burri è naturale, Tapies è naturalista, rifà un muro per esempio, cioè è scenografico”. In un’intervista in cui ricorda Pino Pascali, deceduto dopo un incidente in motocicletta nel 1968, Kounellis cita come fonti principali del lavoro dell’amico e compagno di strada, da un lato Pollock che trasforma il quadro in una ‘arena’ orizzontale dove agire, dall’altro Burri, che insegna ad usare la realtà direttamente ed a combinare diversi materiali: “Pino amava la pittura americana perché odiava tutto questo culturalismo masticato, putrefatto della pittura europea (a parte Burri). All’origine c’è Pollock e Burri” . Anche a Torino, fucina dell’arte povera, la presenza di Burri si fa sentire. L’artista torinese Aldo Mondino ricorda la fine degli anni cinquanta in città: “Dal vero, a Torino, oltre ad una indimenticabile grande mostra di Chagall, ricordo Klee e una mostra di Burri alla Bussola. Forse furono proprio quei sacchi a dare un indirizzo diverso alla mia vita. Ho sentito anche altri artisti della mia generazione dire la stessa cosa” . Burri espone in città la prima volta nel 1957 in occasione della mostra collettiva “Peintres d’Aujourd’hui: France – Italie” al Palazzo delle Arti e lo stesso anno appunto in una personale alla galleria La Bussola dove presenta numerosi Sacchi (Michelangelo Pistoletto ricorda di essere stato colpito da questa mostra). Espone poi nella mostra curata da Tapié e Luciano Pistoi “Arte nuova” al Circolo degli Artisti nel 1959, accanto a Appel, De Kooning, Fautrier, Pollock, Shiraga, Vedova, Tàpies, Yoshihara, Wols e altri. Carla Lonzi, significativa e battagliera figura di critica d’arte di quegli anni, presenta alla galleria Notizie di Pistoi, nel 1963, una mostra di “Opere scelte” fra cui quelle di Burri, Fautrier, Dubuffet, Fontana, Lam, Mathieu, Michaux, Pollock, Riopelle, Tàpies, Tobey, e Wols. Lonzi vedeva nella matrice dell’art autre e nell’informale materico una esperienza liberatrice destinata a modificare vita e coscienza. Mostre personali di Burri si tengono, ancora a La Bussola, nel 1965 e 1966 (lo stesso anno della mostra “Arte abitabile” alla galleria Sperone) e Gilberto Zorio ricorda la forza drammatica ed ‘europea’ delle sue opere in quelle mostre. Nel 1969, nel pieno dell’arte povera, Pistoi, gallerista di Fabro e Paolini, dedica anch’egli una personale a Burri che sarà finalmente presentato in un’antologica pubblica alla Galleria Civica d’Arte Moderna nel 1971, per la cura di Aldo Passoni. Forma e informe: Burri e il Modernismo
Quando ancora imperava l’informale e l’abstract expressionism, Burri ha dunque esplorato nuove possibilità dell’arte. Ma non bisogna neppure fare di Burri ciò che Burri non era, negandogli ciò che più gli stava a cuore. Non è corretto retrodatare al suo lavoro l’effettivo superamento dei presupposti modernisti nei modi in cui esso è avvenuto alla fine degli anni cinquanta con le ricerche di Klein, Manzoni, del Nouveau realisme, del Gruppo Zero, del New Dada e proseguita poi con la Pop Art nei primi anni sessanta e realizzato con l’arte Antiform e Povera alla fine degli anni ’60. Molto lontane da Burri erano infatti le premesse teoriche di tali ricerche, che portarono in definitiva la pittura fuori dal quadro e da un’idea classica e moderna di composizione. Considerando la modernità come l’epoca inaugurata dall’idealismo kantiano da un lato, nonché dell’ascesa della borghesia che sviluppa una visione storicistica e ‘progressiva’ degli eventi umani, e definendo l’arte moderna come quella che si è sviluppata a partire da un concetto di autonomia dell’opera, usiamo quì il termine modernismo come la fase ermeneutica dell’arte moderna che si sviluppa nel corso delle avanguardie astrattiste del ventesimo secolo.Nell’accezione del critico Clement Greenberg , il modernismo è quella specifica parabola dell’arte moderna durante la quale essa si è articolata come auto-indagine e progressivo e presumibilmente infinito riconoscimento ed eliminazione delle proprie convenzioni pittoriche fino al raggiungimento dell’ultimo dipinto che è la superficie piana stessa, oltre la quale non vi è più arte. Correlato al modernismo è il concetto di avanguardia, esso stesso determinato da un’idea di sviluppo lineare e di rinnovamento linguistico: ogni convenzione riconosciuta ed eliminata corre parallela ad una conseguente rivoluzione del proprio linguaggio. Allontanandosi dall’interpretazione fondamentalmente romantica dell’action painting che diede Harold Rosenberg, Greenberg discusse infatti la pittura contemporanea in termini squisitamente formali, come del resto faceva anche Cesare Brandi in Italia. L’opera modernista è prevalentemente ‘visiva’ e non tattile, ed è anche prevalentemente sincronica, rappresa in un istante e la sintesi formale diventa un criterio di qualità così come la distinzione fra materiale e forma offre anche un metodo di lettura dell’opera. Se guardiamo Burri dal punto di vista del predominio del visivo e della sincronicità, egli non è certamente un modernista: il suo è un realismo oltre la rappresentazione, un’arte tattile dove ogni frammento del reale, una volta prelevato dall’artista che lo accoglie nel suo lavoro come accogliesse l’imprevisto dell’esperienza, diventa segno di per se stesso, senza mediazione linguistica. Uno slittamento al di là delle categorie forma/contenuto e del dibattito modernista intorno a questa problematica caratterizza l’irrompere del carnale e l’abolizione della distinzione materia/forma, allontanando radicalmente la sua opera dalla riduzione del formalismo astrattista, così come si evince anche dal Manifesto del Gruppo Origine redatto nel 1950 dagli artisti Colla, Capogrossi e Ballocco e al quale ha aderito anche Burri: “Di fronte al percorso storico dell’ ‘astrattismo’, avvertito ormai come problema artistico risolto e concluso, sia nel suo atteggiamento di reazione nei confronti di qualunque figuratività contenutistica, sia come sviluppo secondo una direzione, nel complesso, sempre più orientata verso la compiacenza decorativa e , insomma, in senso manieristico, il Gruppo Origine intende rifarsi e riproporsi il punto di partenza moralmente più valido delle esigenze ‘non-Figurative’ dell’espressione”. Ma sempre, nella ricerca di Burri, la materia, il frammento, sono fatti rientrare in una ‘composizione’. Burri era certamente, nel pensiero, un modernista convinto, un artista che credeva profondamente nella necessità dell’equilibrio formale dell’opera: “La pittura…deve rispondere a dei canoni di composizione e di proporzione…Come può essere un quadro sproporzionato, ‘cadere’ da una parte….equilibrio delle forme che si pongono nello spazio…equilibrio che può avere delle trazioni terribili da una parte o dall’altra, però sempre equilibrio, capisci? Anche se quasi dà un senso di vertigine la gente che se ne intende, che sa guardare, sa riconoscere questo equilibrio squilibrato”, disse Burri poco prima di morire . Usare la tela di iuta non come supporto bensì come forma stessa dell’opera rientra in un pensiero modernista di eliminazione progressiva delle convenzioni, in questo caso quella della distinzione tra forma e contenuto. Il controllo formale, la capacità di composizione è proiezione della capacità sintetica di un soggetto unitario, è segno di qualità per il modernista. Oggi, alla luce della distanza possibile da questo pensiero, è facile riconoscere che l’equivoco più volte insorto fra Burri ed i suoi esegeti, spesso portati ad interpretare il lavoro in chiave simbolica – cioè riferito al dramma della distruzione della società moderna operata dalla seconda guerra mondiale – mentre l’artista rifiutava fermamente una tale ipotesi, sia dovuto al fatto che Burri è un artista del limite, che non vuole navigare comodamente nelle certezze del modernismo bensì vuole metterle continuamente alla prova, posizionandosi ai suoi confini. Fa irrompere l’informe, il caotico, l’indistinto naturale o culturale (catrame, combustioni, crettature, sacchi, stracci, lembi di tapezzeria), ma anche li imbriglia in una composizione che per necessità è instabile, sempre attento a provocare ma non ad uscire dalla superficie piana che è caposaldo del modernismo (gli elementi della composizione sono spesso ‘appesi’ su un alto orizzonte chiuso, oppure costituiscono una sorta di palizzata di modo tale da non aprire alcuna prospettive in profondità). Burri metteva alla prova i limiti del modernismo stesso utilizzando un’idea di sintesi le cui radici si possono persino trovare nell’estetica barocca dell’unità nella molteplicità e della visione organica delle cose con attenzione ai fenomeni naturali. Non dissimilmente, Pollock sceglieva di mantenersi ai margini dell’informe giungendo sempre all’armonia finale della superficie. E se Burri rifiutava letture ‘simboliche’ delle opere in quanto non voleva che fossero discusse in termini extra-artistici operando una scissione forma/contenuto, Chiara Sarteanesi, curatrice della Fondazione Palazzo Albizzini – Collezione Burri, traduce ancor oggi fedelmente gli intenti dell’artista: “Vennero formulate varie interpretazioni che assimilavano Burri ora al surrealismo, ora all’esistenzialismo, mai accettate dall’artista. La soluzione viene da Cesare Brandi che giustamente osserva come lo spettatore che si pone di fronte a una di queste opere all’inizio prova senso di smarrimento, dovuto al fatto di avere a che fare con un materiale così inconsueto alla pittura, ma subito dopo si rende conto che la composizione è perfettamente equilirata, e il foro, la toppa, la cucitura, la stoffa plastificata appaiono per quello che sono, cioè elementi figurativi funzionali alla composizione e non segni simbolici. Indubbiamente ci troviamo di fronte ad un rinnovamento del linguaggio, oltreché di contenuti. La tela che da sempre aveva fatto da supporto all’opera diventa la protagonista principale”. Moderna e di matrice scientifica – non bisogna dimenticare che Burri era medico di formazione – è pure l’attitudine verso la sperimentazione e la catalogazione che Burri dimostra ordinando spesso le sue esposizioni come una campionatura di opere di ‘generi’ diversi. Ancor prima del ciclo pittorico Il Viaggio (1979) che funge da summa e ricapitolazione di tutte le ricerche materiche e strutturali compiute fino ad allora, egli ha spesso allestito mostre giustapponendo elementi diversi, come se ogni quadro esplorasse la variante di un problema piuttosto che cercare la variazione nell’espressione libera e senza argini del segno poetico.
Alla Biennale di Venezia nel 1958, per citare solo un esempio, Burri espose un sacco, un legno e un cretto bianco (Sacco Grande B, cat.400, Grande Legno Combustione, cat.590, e Tutto Bianco, cat.1028). Vi sono state mostre di soli Ferri o di sole Plastiche, ma generalmente Burri è stato attento a diversificare le opere di modo da fare comprendere come in questione non vi fosse alcun materiale specifico bensì la comparazione di rapporti analoghi fra ogni diverso materiale adoperato e l’operazione dell’artista. Ed i titoli che Burri ha dato ai suoi quadri sono altrettanto semplici, mai metaforici o allusivi. Essi suonano quasi come etichette sui vetrini di un ricercatore: indicano il colore (Nero, Rosso, Bianco, Nero e Bianco, ecc.), a volte il materiale (Sacco, Cretto, Cellotex, Legno) e il luogo dove è esposta l’opera (SP per Sao Paolo, B per Biennale, M per Marlborough, P per Parigi). Burri accoglie dunque l’informe per fare i conti con esso, non per ragioni anti-culturali o anti-artistiche. Se è vero che alcune opere sono meno controllate e composte, come le muffe, i primi cretti, le plastiche combuste, altre, come i catrami, i sacchi, i legni, i ferri e tutte gli ultimi quadri successivi al 1969, hanno un evidente orientamento alto/basso ed il loro metodo compositivo prende spunto non dalla geometria astratta bensì dalla congiunzione di elementi architettonici visti di scorcio, ove le linee di congiunzione e divisione sono come strade, spigoli di muri perimetrali, giunture di tegole sui tetti. E’ in questa volontà di ricomposizione che si vede la differenza fra le ricerche di Burri e quelle di artisti successivi quali Yves Klein o Piero Manzoni, volti ad una ‘gioiosa’ apertura dei confini dell’arte assai diversa dalla drammaticità del rischio che Burri correva in ogni suo quadro. Il pensiero di Burri è fondato sulla fiducia che un soggetto unitario esista. Tanto più è importante per lui l’idea di composizione quanto più essa diventa per il pubblico metafora di una ‘cura’ del mondo contemporaneo lacerato, nonché una verifica di possibilità ancora positive e non distruttive di cui aveva dato prova il mondo occidentale e la cultura europea. Ma anziché prendere la via ‘modernista’, troppo facile, quella di comporre elementi già di per sé ‘astratti’ dalla realtà, sulla scia del cubismo e del costruttivismo della prima avanguardia, e di fare pertanto dell’astrattismo formalista, Burri ha scelto di provocare, per provare la presenza del soggetto, una continua sfida con gli elementi: egli accoglie l’imprevisto, il caso, l’informe, il caos, la complessità della vita – che esso sia naturale (come la crettatura, la muffa o la reazione chimica) o culturale (come il brandello di sacco, di abito o la vecchia stoffa di tapezzeria).
La ‘forma’ che gli viene offerta dal destino, che gli si ‘pone’ dinanzi è l’elemento con il quale egli si deve misurare per tentare ogni volta in un continuo ripertersi mai identico, la capacità di ri-comporre. E’ un artista che, al volgere della seconda guerra mondiale, coglie intensamente la crisi della modernità, le sue contraddizioni, l’irrompere della complessità, la difficoltà di arginare l’imprevisto, ma che sente al contempo, oltre le possibilità della ragione, soltanto il disastro.
Giovanni Cardone