di Enzo Fera
Geppino Gambardella è uno scrittore. Ha appena compiuto 65 anni, ma il successo lo ha raggiunto grazie ad una piccola perla, scritta diversi anni prima, che gli ha aperto le porte della Roma “bene”. Il suo genio è al servizio di un giornale, che gli permette di servire articoli e rubriche apprezzate dal grande pubblico come da quello “d’élite”. Ma l’appagamento per Gep, come si fa chiamare da quando è entrato in quel mondo patinato, è un’altra cosa. Lui non è un mondano, ma il “re dei mondani”, come ama definirsi, e il suo è il regno dell’effimero, ma sente un bisogno viscerale di trovare e di condividere, scrivendo, qualcosa di più etereo, di più elevato, qualcosa di sublime.
Qui si apre e si chiude la storia raccontata da Sorrentino e inizia il viaggio, attraverso l’ossessione e la ricerca di quella bellezza che Jep ha soltanto intravisto e sfiorato ormai tanto, forse troppo, tempo fa. I riflettori della sceneggiatura si accendono di volta in volta sulla città, sullo scrittore, sull’uomo.
Raramente, fatta eccezione per Ramona (Sabrina Ferilli) e lo scrittore interpretato da Carlo Verdone, si concede agli altri avventori la dignità di personaggio. Gli interpreti fanno da contorno, da paesaggio, racchiusi all’interno di un girone dantesco, più grottesco che infernale, fatto di effimero e di vuoto. Sono condannati, condannati a vivere di notte e a sparire di giorno, condannati a essere la copertina patinata di una rivista fatta di pagine bianche. Per raccontare questo viaggio Sorrentino si serve spesso della contrapposizione: la frase fatta di Jep, rivolta alla madre inconsolabile che ha appena perso il figlio, servita lì più per il pubblico che per la donna, che si scontra con il pianto sincero dello scrittore mentre si carica del feretro del giovane. Le statue eleganti ed eterne, ma al contempo fredde costrette ad osservare il fantastico corpo della Ferilli involgarito da abiti vistosi, eccessivi che nascondono, però, una bellezza ben più profonda e più intima di quella del marmo puro, bellezza che il regista fa “sperare” allo spettatore per un tempo volutamente limitato. Le sensazioni, i sentimenti, le emozioni prendono il sopravvento sulle vicende, come nella migliore Scuola Coreana, delineando un quadro fatto di profumi delicati, di chiaroscuri, di melodie che si nascondono nel chiasso e nella volgarità di un mondo grottesco e superficiale. Sorrentino, ricordando il protagonista pirandelliano de “L’uomo dal fiore in bocca” (che cercava di trovare il vuoto della vita nella manualità di una commessa che preparava un pacchetto per un cliente e veniva, invece, sopraffatto dalla bellezza di quei semplici gesti), scava nell’ambiente e nelle persone, servendosi abilmente di una fotografia e di un sonoro in grado di risvegliare l’attenzione sui “rumori di fondo” del quotidiano, trovandone e svelandone la poesia. Così come i monologhi interiori del protagonista lasciano filtrare qualche bagliore di luce attraverso il chiasso della notte romana. “è tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore… il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura. Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza… e poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile”.
Jep sa che la bellezza, “la Grande Bellezza” e davanti a lui, ma non riesce a vederla, ad afferrarla. È lì, nella sua mente, nella sua memoria, è in lui, egli stesso ne è parte… ma limitarsi ad ammirarla, sentirla, odorarla, coglierne la poesia, ha forse più senso che tentare, invano, di comprenderla.